Un agente chimico vietato nel mondo negli ultimi 30 anni è purtroppo ricomparso. E tutti gli indizi di un nuovo studio indicano la Cina come colpevole. Negli anni ’80, i Paesi hanno firmato il Protocollo di Montréal, un trattato internazionale per bloccare e ridurre la produzione di clorofluorocarburi (CFC), agenti chimici utilizzati come refrigeranti e nella produzione di schiume espanse che hanno l’effetto collaterale di distruggere lo strato d’ozono della Terra. Il Protocollo di Montréal è stato firmato da 197 Paesi nel mondo, Cina inclusa.
Lo strato di ozono, un fragile scudo di gas, protegge la vita animale e vegetale sulla Terra dai potenti raggi UV. Quando lo strato di ozono si indebolisce, maggiori quantità di raggi UV possono attraversarlo e influenzare gli esseri umani, esponendoli ad un maggior rischio di tumori della pelle, cataratte e altre malattie. Possono esserci conseguenze anche per la vita vegetale, inclusi minori raccolti e distruzione della catena alimentare dell’oceano. Dopo aver concordato un’azione globale, il protocollo ha contribuito ad una notevole riduzione dei pericolosi CFC, che ha poi permesso un lento risanamento dello strato di ozono danneggiato.
Questo fino allo scorso anno, quando gli scienziati della NOAA hanno scoperto che le emissioni globali di triclorofluorometano (CFC-11) stanno aumentando dal 2013. L’aumento implicava che qualcuno stava segretamente violando il Protocollo di Montréal. Ma le limitazioni dei dispositivi di misurazione hanno fatto sì che la posizione del Paese inquinante potesse essere ricondotta solo ad una località asiatica, senza ulteriori dettagli.
Ora, in un nuovo studio pubblicato su Nature, gli scienziati dell’Università di Bristol, della Kyungpook National University e del Massachusetts Institute of Technology hanno scoperto che tra il 40 e il 60% delle emissioni totali globali di CFC-11 deriva dalla Cina orientale. Con l’aiuto di una rete internazionale di dispositivi di misurazione progettata per identificare e tracciare i gas presenti nell’atmosfera, il team ha scoperto che i dati dei dispositivi in Corea e Giappone sono aumentati dal 2013. Dopo aver analizzato i modelli meteo e del vento per determinare l’origine dell’aumento dei gas, questo li ha portati alla Cina orientale, intorno alla provincia di Shandong. I ricercatori hanno calcolato che c’è stato un aumento del b nelle emissioni da queste zone della Cina tra il 2014 e il 2017 rispetto al periodo 2008-2012.
Matt Rigby, uno degli autori principali dello studio, ha affermato che “la spiegazione più probabile è che sia avvenuta una nuova produzione, almeno prima della fine del 2017, che è il periodo coperto dal nostro lavoro”. “Ora è vitale trovare le industrie responsabili delle nuove emissioni. Se le emissioni sono dovute alla produzione o all’uso di prodotti come le schiume, è possibile che abbiamo visto parte della quantità totale di CFC-11 che è stata prodotta. Il resto potrebbe essere rinchiuso in edifici e refrigeratori e alla fine sarà rilasciato nell’atmosfera nei prossimi decenni”, ha aggiunto Rigby.
Emettere ulteriori quantità di CFC-11 nell’aria potrebbe ritardare il ritorno dei livelli di ozono alla normalità, avvisano gli esperti. “Se le emissioni non scenderanno, questo ritarderà il recupero del buco dell’ozono sull’Antartide, forse di decenni”, ha dichiarato Paul Fraser, membro onorario del CSIRO Climate Science Centre in Australia. Il CFC-11 persiste nell’atmosfera per circa mezzo secolo e contribuisce ancora ad un quarto di tutto il cloro, sostanza che innesca la distruzione dell’ozono.
I cinesi dichiarano di aver già iniziato ad arginare questa produzione. Lo scorso novembre, nella provincia di Henan, diversi sospettati sono stati arrestati in possesso di 30 tonnellate di CFC-11. Rigby spera che questo nuovo studio aiuti le autorità cinesi a bloccare le strutture di produzione illecita di questo pericoloso agente chimico.