La risalita di magma profondo potrebbe essere la causa dello sciame sismico che ha accompagnato l’eruzione laterale dell’Etna del 24-27 dicembre 2018, culminato con il forte terremoto di magnitudo ML 4.8 che il 26 dicembre ha interessato la faglia di Fiandaca nel fianco sud-orientale del vulcano. A formulare questa ipotesi è uno studio condotto da un team di ricercatori dell’Istituto per il rilevamento elettromagnetico dell’ambiente del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Irea, Napoli) e dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv, Catania e Roma), in collaborazione con il Dipartimento di protezione civile (Dpc, Roma). I risultati della ricerca, DInSAR analysis and analytical modelling of Mt. Etna displacements: the December 2018 volcano-tectonic crisis, sono stati pubblicati su Geophysical Research Letters.
“La disponibilità dei dati radar satellitari della costellazione Sentinel-1, del programma europeo Copernicus, e della costellazione COSMO-SkyMed, dell’Agenzia spaziale italiana (Asi) e del Ministero della Difesa“, evidenzia Riccardo Lanari, direttore Cnr-Irea, “ha permesso di rilevare, con precisione centimetrica, i movimenti del suolo che hanno interessato l’apparato vulcanico etneo nel corso dell’eruzione del 24-27 dicembre 2018. L’individuazione sia delle sorgenti magmatiche, sia di quelle sismogenetiche, che hanno causato le deformazioni rilevate dai satelliti, è stata possibile grazie ad un approccio multidisciplinare che ha integrato i dati sismologici e di terreno con i dati radar satellitari elaborati da Cnr-Irea”.
Grazie all’utilizzo di modelli matematici sono state ricostruite le sorgenti vulcaniche e sismiche che hanno generato le deformazioni, riuscendo a mostrare il nesso causale fra eruzione e terremoti.
“La modellazione applicata”, afferma Vincenzo De Novellis, ricercatore Cnr-Irea, “ha consentito di distinguere due differenti sorgenti deformative connesse con l’intrusione di magma: una molto superficiale, che ha causato l’apertura delle fessure osservate al suolo da cui è fuoriuscita la colata lavica, ed un’altra molto più profonda (da 3 a 8.5 km) che ha esercitato una tensione sui fianchi del vulcano, innescando il movimento delle faglie e quindi generando i numerosi terremoti registrati dalla rete di monitoraggio dell’Ingv”.
Che il forte abbassamento del suolo dell’area a ridosso de La Montagnola (circa 3 km a sud della zona dei crateri sommitali dell’Etna) fosse un effetto secondario dell’intrusione magmatica profonda lo si è capito solo grazie alla modellazione. “Con lo stesso approccio”, aggiunge Simone Atzori, ricercatore Ingv, “abbiamo analizzato e quantificato le interazioni avvenute tra la risalita dei magmi e le faglie circostanti, fra cui le strutture di Fiandaca, della Pernicana e di Ragalna”.
La comprensione delle relazioni tra intrusioni magmatiche e terremoti rappresenta da sempre una sfida scientifica di estremo interesse, soprattutto per i risvolti che questi studi hanno sulla valutazione della pericolosità sismica e vulcanica.
“E non è detto che sia finita qui”, conclude Marco Neri, primo ricercatore Ingv. “Confrontando le grandi deformazioni del suolo intervenute negli ultimi mesi e la piccola eruzione di dicembre, c’è da pensare che il vulcano abbia ancora energia da spendere, come dimostra la ripresa dell’attività eruttiva del 30 maggio 2019. Si tratta di valutazioni importanti, soprattutto per un territorio densamente urbanizzato come quello etneo, dove quasi un milione di persone vive a stretto contatto con uno dei vulcani più attivi al mondo”.
Tali risultati costituiranno un punto di riferimento per migliorare le stime del rischio in un’area a così alta densità abitativa.