La scorsa settimana, si spiega in una nota, “è stata pubblicata una notizia che riassumeva in una frase estrapolata da un’intervista radio in maniera indiretta, e forse superficiale un pensiero molto più articolato del suo autore, si è certo generata confusione nell’aver accostato la presenza di migranti al diffondersi di malattie come la tubercolosi“. Di seguito la precisazione di Massimo Galli, Professore Ordinario Malattie Infettive Università degli Studi di Milano e Presidente della SIMIT – Società Italiana Malattie Infettive e Tropicali:
“Dopo aver constatato che era stato sintetizzata male quanto avevo detto nell’intervista a una radio nella frase “Non si può negare connessione tra paese d’origine migranti e diffusione malattia” – ritengo importante su di una simile affermazione che ritengo ambigua e confondente operare una precisazione. È un dato di fatto che più un paese è povero, più è elevata la percentuale dei suoi cittadini che sono portatori di una tubercolosi latente. In merito alla connessione con la diffusione, cioè al rischio di trasmissione della malattia, è necessario un chiarimento.
Secondo il rapporto della WHO del 2018, il 23% della popolazione mondiale, circa un miliardo e settecentomila persone, me compreso, ha una tubercolosi latente. Ha incontrato, cioè, nel corso della sua vita, il micobatterio della tubercolosi, senza sviluppare la malattia. Da un’infezione da Mycobacterium tuberculosis non ci si può mai liberare del tutto. Se dopo l’infezione il tuo sistema immunitario reagisce subito bene, costringe il batterio a nascondersi in particolari cellule, i macrofagi, ove resta ‘sotto sorveglianza’ per tutta la durata della vita dell’ospite.
La probabilità che si riattivi, causando malattia, si calcola sia circa del 5-10%, e dipende principalmente dalle condizioni (più povertà, più disagio, più riattivazione) e dalla durata della vita (gli infettivologi italiani sanno bene che gli ultra ottantenni che vengono ricoverati nei loro reparti per la riattivazione di una tubercolosi non sono rari), dall’insorgenza di malattie debilitanti e dalla necessità di assumere farmaci immunosoppressori (in questo caso, i portatori di TB latente devono sottoporsi a particolari trattamenti preventivi).
La frequenza della TB latente in una popolazione è proporzionale alle condizioni di vita e al livello igienico-sanitario che le sono garantite. Quindi oggi i paesi più poveri sono quelli con la più alta percentuale di TB latente. In Italia, la TB latente e la circolazione di M.tuberculosis hanno cominciato a ridursi prima ancora dell’introduzione delle terapie antitubercolari ad alta efficacia, in relazione con il miglioramento delle condizioni di vita. Ciononostante, i cittadini italiani che ‘ospitano’ M.tuberculosis sono ancora molti. Tra gli italiani sopra i sessanta, anche se mancano dati recenti, gli ‘ospitanti’ sarebbero il 20-30%. Ipotizzando per difetto che nella intera popolazione siano il 10%, gli italiani con TB latente sarebbero, me compreso, circa sei milioni. E non credo che nessuno di noi sia, si ritenga o voglia essere trattato come un potenziale untore.
Gli italiani con TB latente sono quindi anche più numerosi di tutti gli immigrati, e molto più numerosi di quelli tra gli immigrati che hanno una TB latente. La differenza sta tutta nelle condizioni di vita. Chi arriva dopo un viaggio disagevole, magari dopo un lungo soggiorno in condizioni miserevoli in Libia, non stupisce che abbia avuto più probabilità di riattivazione della TB. O di averla contratta in condizioni di sovraffollamento. Magari anche dopo essere arrivato in Europa, in situazione abitative precarie. Capita anche ai nostri connazionali senza tetto, che rappresentano un gruppo a rischio per la riattivazione della TB. È arrivato il momento di fare chiarezza, combattendo la malattia, e non le persone. I rischi legati alle condizioni di vita, e non chi li subisce.
Tali considerazioni sono ampiamente condivise anche da Giorgio Besozzi, Presidente di Stop TB Italia Onlus, in passato Direttore del Centro Regionale di Riferimento della tubercolosi della Lombardia e primario della tisiologia dell’ospedale di Sondalo “Premesso che faccio parte anch’io (dal 1975) di quei sei milioni di italiani infettati, da sempre sappiamo che la malattia è anche sociale e per combatterla dobbiamo agire su vari livelli, ivi compreso la cattiva distribuzione delle risorse sul pianeta. Il rischio vero è la povertà, non la provenienza delle persone.”