L’arrivo di una diagnosi di tumore può deflagrare all’interno di una famiglia come una bomba. E’ molto facile aggrapparsi ad ogni speranza e voler ricorrere a tutte le soluzioni possibili per combattere una malattia che in Italia è la seconda causa di morte. E’ così che iniziano i viaggi della speranza da un centro all’altro e dal Sud al Nord del Paese. L’associazione ‘Women for Oncology Italy’, che ha promosso oggi alla Camera l’evento ‘Donne che curano la famiglia‘, ha ribadito “che il viaggio verso altre strutture rispetto alle proprie di riferimento andrebbe fatto solo quando davvero necessario: tumori rari, protocolli di studio, pazienti con buon performance status. In questo senso, anche una pratica più consapevole e meglio gestita della cosiddetta ‘second opionion’ potrebbe aiutare a bloccare i viaggi della speranza laddove non siano fondamentali per la certezza della cura o per la tempestività di una diagnosi specifica“.
“Secondo un’indagine del Censis – ha ricordato l’associazione – sono stati 750 mila i ricoveri in mobilità ospedaliera interregionale nel 2016, ai quali si aggiunge lo spostamento correlato di almeno altre 650 mila persone, ovvero l’esercito degli accompagnatori e dei familiari: circa 1 milione e mezzo di persone con la valigia costantemente in mano per affrontare ricoveri lontano da casa anche più e più volte l’anno“.
“Prendersi cura del paziente per gli oncologi non significa solo prescrivere una terapia ma prendersi cura a 360 gradi della persona. Quando c’è una diagnosi di questo tipo ha delle ripercussioni sull’intera famiglia – spiega all’Adnkronos Salute Fabiana Letizia Cecere, oncologa dell’Istituto nazionale tumori Regina Elena di Roma – Noi abbiamo cercato di fare luce su un insieme di processi, dalla prevenzione quando c’è la diagnosi di ereditarietà al fine vita. Sono aspetti che hanno assolutamente a che fare con la famiglia. La ripercussione sul minore di una diagnosi sul genitore o la malattia del figlio sono argomenti di cui ci occupiamo. Dal nostro punto di vista abbiamo riscontrato una disomogeneità sul territorio nazionale nella gestione del paziente oncologico e abbiamo riunito le associazioni dei pazienti, chi fa volontariato, le istituzioni, per mappare e migliorare la gestione del paziente e della sua famiglia“.
Women for Oncology Italy chiede alle istituzioni “un impegno preciso e circostanziato per lavorare insieme alla creazione di una circuito calibrato che sostenga sia il malato che la famiglia nel tortuoso cammino della terapia e dei suoi esiti, anche grazie al prezioso ruolo delle molteplici associazioni del settore presenti nei territori“.
“Il cancro non è semplicemente una patologia che colpisce alcuni organi – ha affermato il direttore dell’Oncologia medica 1 dell’Istituto Regina Elena di Roma, Francesco Cognetti – ma è una malattia che ha un impatto ben più ampio sulla persona, sulla vita, sulla psiche e sulle relazioni affettive. È una malattia che va gestita a tutto tondo. Le pazienti sopravvivono molto più a lungo rispetto al passato, mesi e anche anni. La donna si trova in mezzo perché è paziente o parente di un paziente ed è al centro delle dinamiche che ruotano attorno alla malattia“.
Tumori, oncologhe: stop ai viaggi della speranza, non sempre necessari
"Una pratica più consapevole e meglio gestita della 'second opionion' potrebbe aiutare a bloccare i viaggi della speranza laddove non siano fondamentali"
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