Un detenuto è morto ieri nel reparto di rianimazione dell’ospedale San Paolo di Milano: nonostante avesse un tumore allo stadio terminale era ‘piantonato’. È quanto emerge dalla lettera-denuncia indirizzata, tra gli altri, al ministro Alfonso Bonafede, con cui il difensore dell’uomo di 58 anni, Francesca Brocchi, chiede di fare approfondimenti per capire se siano stati violati i “suoi diritti di detenuto e di malato” e per evitare si possano ripetere in futuro casi simili.
Nella lettera, il legale ripercorre l’intera vicenda iniziata nel dicembre 2018 quando il 58enne, oltre a tosse e difficoltà respiratorie, accusa “dolore persistente al polmone sinistro“. Il 12 aprile, una radiografia al torace evidenzia la presenza di liquido nella cavità toracica e il conseguente “collasso del polmone sinistro“, che richiedono un ricovero d’urgenza al Fatebenefratelli. Due settimane dopo, la scoperta della “presenza di cellule tumorali maligne“, le dimissioni dall’ospedale e il ritorno in cella in attesa di una “Tac-Pet” per confermare la diagnosi. Ma l’accertamento, programmato per il 2 maggio successivo, slitta a 25 giorni dopo per un disguido.
Nel frattempo il legale deposita alla Corte d’Appello, la terza sezione penale, la prima istanza per valutare la compatibilità con il carcere e ottenere la sostituzione della misura cautelare con obbligo di presentazione alla Polizia Giudiziaria, per consentirgli di potersi curare. Nonostante i solleciti, il carcere di Opera, come si evince dalla lettera, fatica a inviare le relazioni sullo stato di salute dell’uomo e i giudici in assenza delle relazioni non possono decidere sulle ripetute richieste.
Come si legge nella lettera, già protocollata dal provveditorato regionale alle carceri, ai primi di giugno avviene il ricovero nel Centro Clinico sempre di Opera e il 12 giugno, dietro l’autorizzazione dei magistrati, all’ospedale San Paolo per la biopsia, dopo la quale avrebbero dovuto esserci l’intervento chirurgico e le cure. Ma purtroppo le condizioni del detenuto peggiorano: ha metastasi alle ossa, non si regge in piedi o quasi, “ha forti dolori al costato ed ha un drenaggio al polmone”. Il legale, dunque, reitera la richiesta di scarcerazione, ma la Corte d’Appello non può ancora provvedere per mancanza della documentazione clinica. Il 15 luglio viene dimesso con una diagnosi che non lascia scampo, ma tre giorni dopo viene di nuovo ricoverato nello stesso ospedale per poi essere trasferito nel reparto di rianimazione.
Di tutto questo, “nessuna comunicazione risulta essere inviata all’Autorità Giudiziaria, tanto meno al difensore“. Mentre la procura generale dà il via libera agli arresti domiciliari in un Hospice, la sua salute si aggrava di giorno in giorno. Il 26 luglio, sempre in terapia intensiva, “Giorgio, con i polsi legati al letto” per evitare si potesse togliere itubi, “intubato e tenuto in vita dalla respirazione assistita“, e con ancora il “drenaggio toracico”, riesce solo a pronunciare, con il labiale, poche parole mute “voglio morire, voglio morire”. La sua sofferenza è “indicibile“. Il suo legale gli promette “che avrebbe continuato a battersi per lui, per fare in modo che potesse morire da uomo libero“. Ieri finalmente il parere positivo del Pg: revocare la misura cautelare e disporre l’obbligo di firma. Purtroppo, però, era ormai troppo tardi.