Incendi in Amazzonia: perché il polmone del mondo va a fuoco? Le cause principali sono due

L'uomo e i cambiamenti climatici sono tra le cause principali degli incendi che stanno interessando al Foresta Amazzonica
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C’è una causa dietro agli incendi su larga scala che stanno colpendo la foresta pluviale amazzonica? A quanto pare sì, e ce non sono diverse, ma la più decisiva è sicuramente l’uomo. In particolare sul banco degli imputati ci sono le grandi imprese zootecniche e agro-industriali, le cui azioni sono aggravate dai cambiamenti climatici. Basti pensare che solo nel corso del 2019 nella foresta pluviale amazzonica si sono registrati circa 75mila eventi incendiari, un numero record, quasi il doppio rispetto al numero d’incendi nello stesso periodo del 2018.

L’istituto nazionale per la ricerca spaziale (Inpe) ha rilevato che nel mese di luglio sono stati bruciati 225mila ettari di foresta pluviale amazzonica, il triplo rispetto a quelli del luglio 2018. Da una parte quindi, ricorda l’Ispra, l’Istituto superiore per la protezione ambientale, ci sono gli agricoltori e alle grandi imprese zootecniche e agro-industriali che usano il metodo ‘taglia e brucia’: gli alberi vengono tagliati tra luglio e agosto, lasciati in campo per perdere umidità, poi bruciati. Quando ritorna la stagione delle piogge, l’umidità del terreno denudato favorisce lo sviluppo di vegetazione nuova per il bestiame il cui allevamento è responsabile dell’80% della deforestazione in corso nella foresta pluviale amazzonica. Una parte significativa dell’offerta globale di carne bovina, compresa gran parte dell’offerta di carne in scatola in Europa, proviene da terreni che un tempo erano la foresta pluviale amazzonica.

Altra causa da non sottovalutare per i roghi che stanno distruggendo la Foresta Amazzonica sono i cambiamenti climatici. Gli incendi sono favoriti e sostenuti dalle condizioni climatiche estreme, da ondate di calore prolungate e intense e da siccità prolungate, insolite per questa parte del mondo. Cambiando le condizioni meteo-climatiche, cambiano anche le intensità degli attacchi degli insetti, che rendono le piante più vulnerabili: i rami secchi, le piante morte e il terreno arido fanno aumentare il materiale comburente e dunque il rischio degli incendi. Ad oggi, l’Amazzonia è stata disboscata per oltre il 15% rispetto al suo stato iniziale (epoca pre-umana). Per gli scienziati, se il disboscamento dovesse raggiungere il 25%, non ci saranno abbastanza alberi per mantenere l’equilibrio del ciclo dell’acqua. La regione attraverserà un punto critico ed eventualmente evolvere verso la savana.

Il problema, ovviamente, non riguarda solo l’Amazzonia perché i rischi per il resto del mondo sono concreti e preoccupanti. La foresta pluviale amazzonica produce enormi quantità di ossigeno, trattiene miliardi di tonnellate di carbonio nella sua vegetazione, nella lettiera e nel suolo, che invece potrebbero ossidarsi e liberarsi in atmosfera, aumentando l’effetto serra. Secondo l’Ipcc, l’attuale ritmo di deforestazione (13 milioni di ettari l’anno, 250 milioni negli ultimi due decenni) e degradazione delle foreste è la principale causa del declino della biodiversità e dell’accumulo di gas serra in atmosfera. La distruzione delle foreste in altre forme di uso del suolo, il loro incendio, il drenaggio delle torbiere e delle aree umide e la distruzione di prati e di pascoli, sono alla radice delle emissioni di enormi quantità di anidride carbonica: circa 5,5 miliardi di tonnellate di CO2 equivalente, pari al 14% delle emissioni globali di gas serra.

“Questo degrado e ‘consumo’ di suolo – ricorda Lorenzo Ciccarese, capo del dipartimento che studia i cambiamenti della flora per l’Ispra – stiamo pericolosamente rinunciando a un’opzione importante per raggiungere il livello net zero emissions entro il 2050, il target che lo Special Report 1.5 dell’Ipcc pubblicato lo scorso anno indica ai decisori politici se vogliamo contenere il riscaldamento globale a meno di 1,5°C”.

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