Il telefono cellulare ‘assolto’ per mancanza di prove dall’accusa di effetti cancerogeni. In base alle evidenze epidemiologiche attuali, infatti, l’uso del telefonino non risulta responsabile di neoplasie nelle parti del corpo più esposte alle radiofrequenze durante le chiamate vocali. L’analisi dei numerosi studi pubblicati nel periodo 1999-2017 non rileva, infatti, aumento dei rischi di tumori maligni (glioma) o benigni (meningioma, neuroma acustico, tumori delle ghiandole salivari) legato l’uso prolungato (da 10 anni in su) dei telefoni mobili. Sono i risultati del Rapporto Istisan ‘Esposizione a radiofrequenze e tumori: sintesi delle evidenze scientifiche’, curato da Susanna Lagorio, Laura Anglesio, Giovanni d’Amore, Carmela Marino e Maria Rosaria Scarfì, un gruppo multidisciplinare di esperti di diverse agenzie italiane (Iss, Arpa Piemonte, Enea e Cnr-Irea).
Si tratta di una rassegna delle evidenze scientifiche sugli eventuali effetti cancerogeni dell’esposizione a radiofrequenze, indirizzata principalmente all’aggiornamento professionale degli operatori del Servizio sanitario nazionale e dei tecnici del Sistema nazionale di protezione ambientale. Rispetto alla valutazione della Iarc (Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro) nel 2011 – spiegano gli autori – le stime di rischio considerate in questa meta-analisi “sono più numerose e più precise“.
Inoltre, l’aumento di rischio osservato in alcuni studi caso-controllo- spiegano gli esperti – non sono in linea con l’andamento, nel tempo, dei tassi d’incidenza dei tumori cerebrali che, a quasi 30 anni dall’introduzione dei cellulari, non hanno risentito del rapido e elevato aumento dell’esposizione. Per chiarire, invece, le possibili incertezze che riguardano i tumori a più lenta crescita e l’uso del cellulare iniziato durante l’infanzia, sono in corso ulteriori studi, precisano i ricercatori.
Anche l’ipotesi di un’associazione tra radio frequenze emesse da antenne radiotelevisive e incidenza di leucemia infantile, suggerita da alcune analisi di correlazione geografica, non appare confermata dagli studi epidemiologici con dati individuali e stime di esposizione basate su modelli geospaziali di propagazione.
La Iarc nel 2011 ha classificato le radiofrequenze nel gruppo dei possibili cancerogeni (2B) “in base a limitata evidenza nell’uomo, limitata evidenza negli animali e debole supporto fornito dagli studi sui meccanismi“, scrivono gli scienziati aggiungendo che “il significato di questa classificazione non è intuitivo. Pertanto, la Iarc ha ritenuto utile ribadire che le radio frequenze sono classificate nel gruppo 2B perché c’è un’evidenza tutt’altro che conclusiva che l’esposizione possa causare il cancro negli esseri umani o negli animali. Valutazioni successive concordano nel ritenere che le evidenze relative alla possibile associazione tra esposizione a radio frequenze e rischio di tumori si siano indebolite e non richiedano modifiche all’impostazione degli standard di protezione correnti“.
“L’Organizzazione mondiale della Sanità – concludono gli scienziati – sta attualmente preparando un aggiornamento della valutazione di tutti i rischi per la salute da esposizione a radiofrequenze. In attesa di questa monografia, gli sviluppi della ricerca sono costantemente monitorati da panel nazionali e internazionali di esperti“.