Secondo una ricerca italiana sarebbero quasi un milione le persone che, nel nostro Paese, soffrono di celiachia: tra queste soltanto 200mila hanno una diagnosi e dunque ne sono consapevoli. Lo studio, per la prima volta, dopo 20 anni dalle stime di riferimento, registra un aumento della prevalenza della celiachia, che passa così dall’1% della popolazione a quasi il 2%: ne discutono i massimi esperti internazionali riuniti oggi a Milano, al convegno scientifico ‘The future of celiac disease’, in occasione del 40° anniversario dell’Associazione italiana celiachia (Aic).
La ricerca, recentemente pubblicata su Clinical Gatroenterology and Hepatology, è stata condotta su 4.500 bambini di aree metropolitane ed ha evidenziato che alla base dell’incremento dei casi potrebbero esserci cause ambientali non ancora individuate. L’aumento – chiariscono i ricercatori – pone la necessità di migliorare le diagnosi che oggi arrivano in media oltre 6 anni dopo i primi sintomi. Per questo, anche per scovare i ‘pazienti camaleonte’ con sintomi insoliti – come afte ricorrenti in bocca, orticaria, anemia, irregolarità mestruali – gli esperti riuniti a Milano propongono test del sangue mirati.
“Fino a poco tempo fa ritenevamo che la prevalenza di celiachia fosse in aumento solo per la nostra migliore capacità diagnostica, ora il nuovo studio mostra un incremento sostanziale dei casi“, spiega Marco Silano, coordinatore board scientifico Aic e direttore reparto alimentazione, nutrizione e salute, dell’Istituto superiore Sanità. “La rapidità dell’aumento – continua Silano – fa pensare che a causarla siano fattori ambientali: sono al vaglio ipotesi come le infezioni virali, non solo intestinali, o l’uso dell’enzima transglutaminasi nei cibi pronti al consumo. Oppure ancora l’uso di antibiotici nella prima infanzia, la quantità di glutine nello svezzamento o un microbioma che favorisca la patologia. Inoltre, l’età media in cui si manifesta la celiachia sta salendo e stanno cambiando anche le modalità cliniche con cui si presenta: i pazienti con segni classici come la diarrea sono pochi, occorre perciò cambiare approccio e cercare i celiaci in tutte quelle categorie di pazienti che per esempio presentano sintomi di osteoporosi, anemia, turbe della fertilità, colon irritabile“.
Alla luce dei nuovi dati, i casi diagnosticati sarebbero, dunque, appena il 20% contro il 37% di poco tempo fa. Mancano all’appello molti pazienti che avendo sintomi meno evidenti si trascinano per anni senza una diagnosi corretta.
“È perciò essenziale – prosegue Silano – impegnarci per diffondere consapevolezza sui segni meno scontati della celiachia, fra i pazienti e anche fra pediatri, medici di medicina generale ma soprattutto specialisti come dentisti, ginecologi, ortopedici, ematologi che finora non sono stati in prima linea nel riconoscere l’intolleranza al glutine ma che potranno diventare medici-sentinella per riconoscere i pazienti camaleonte. L’ideale sarebbe andare attivamente a cercare i pazienti nelle categorie a rischio, per esempio cercando gli anticorpi antitransglutaminasi in tutti i ricoverati in reparti ospedalieri come ostetricia, pediatria, medicina interna o sottoponendo ai test donne con turbe della fertilità o aborti ricorrenti. Dovremmo infine realizzare una sorta di elenco di sintomi, da quelli più classici e tipici a quelli che adesso vediamo correlati con la celiachia, come la tiroidite autoimmune: tutti i pazienti che li manifestassero andrebbero sottoposti agli esami sierologici“.
“Il modo di fare diagnosi – prosegue Silano – potrebbe cambiare in futuro: a oggi nell’adulto la biopsia che confermi la celiachia è essenziale per escludere la presenza di altre patologie più gravi, in un prossimo futuro potrebbero bastare esami immunologici sul sangue. Ci sono infatti studi interessanti sulla cosiddetta ‘biopsia liquida’, un esame del sangue che predice la presenza del danno alla mucosa intestinale: viene utilizzato in oncologia, ma potrebbe essere applicato anche alla celiachia“.