In un articolo di Mauro A. Di Vito, Sandro de Vita, Rosella Nave per INGVVulcani, gli autori parlano della lunga storia della caldera dei Campi Flegrei. Di seguito l’articolo.
Una caldera è una struttura vulcanica che si forma quando, in seguito ad un’eruzione vulcanica, la camera magmatica si svuota in misura sufficiente da causare il collasso delle rocce sovrastanti. La caldera dei Campi Flegrei si sviluppa su un’area compresa tra il promontorio di Cuma, a ovest, e le colline di Camaldoli, Vomero e Posillipo, a est (Figura 1). Un’area molto più ampia di quella calderica è stata sede di vulcanismo già diverse decine di migliaia di anni prima delle eruzioni che hanno causato i collassi calderici, avvenute rispettivamente 40.000 e 15.000 anni fa.
Dati di perforazioni e di rocce affioranti indicano che i vulcani attivi prima di 40.000 anni fa erano centri eruttivi monogenici che hanno generato sia eruzioni esplosive che effusive. Le età radiometriche di alcune delle rocce più antiche affioranti indicano che il vulcanismo era attivo prima di 60.000 anni fa.
Nella città di Napoli vi sono esempi molto evidenti di questi vulcani quali la collina del Monte Echia, che rappresenta i resti di un cono di tufo, e la collina di San Martino (Figura 3), la cui forma deriva dalla presenza di una cupola lavica, su cui si sono depositati i depositi di coni di tufo locali, sempre più vecchi di 40.000 anni. Ma questi sono solo alcuni dei numerosi centri eruttivi sepolti sotto i prodotti delle eruzioni successive o sprofondati nell’area interessata dal collasso calderico; altri esempi molto evidenti di questo vulcanismo si vedono lungo la falesia di Monte di Procida.
La caldera flegrea in realtà è il risultato di due collassi, avvenuti durante due eruzioni esplosive di elevata magnitudo: l’Ignimbrite Campana (età 39.000 anni) e il Tufo Giallo Napoletano (età 15.000 anni). Sulla forma e dinamica di queste due caldere vi è ancora un dibattito scientifico in atto, che tuttavia non ha influenza sulla ricostruzione della storia successiva all’ultimo collasso. Queste due eruzioni hanno generato rocce molto utilizzate nell’area napoletana per la costruzione di manufatti e note in tutto il mondo. La prima ha generato il Piperno, la Breccia Museo (Figura 4) e il Tufo Grigio Campano, la seconda ha prodotto il Tufo Giallo Napoletano e la famosa “pozzolana”, ampiamente utilizzata, insieme ai tufi, sin dalle epoche greca e romana.
La struttura calderica, da molti ritenuta “annidata”, cioè con la seconda (più piccola) contenuta nella precedente, è interessata da una generale subsidenza, mentre la sua parte centrale è soggetta a episodi di risorgenza, che hanno determinato un sollevamento di almeno 90 m della parte centrale di Pozzuoli negli ultimi 10.000 anni.
Il vulcanismo degli ultimi 15.000 anni è avvenuto all’interno della caldera più recente (Figura 6) e si è concentrato in tre Epoche di intensa attività, quasi esclusivamente esplosiva. Le età misurate con il metodo del radiocarbonio (14C) consentono di collocare la prima Epoca da 14.900 a 10.600 anni fa; la seconda Epoca da 9.600 a 9.100 anni fa, e la terza da 5.500 a 3.800 anni da oggi. Dopo la fine della terza epoca l’unico evento eruttivo occorso è quello che ha visto la formazione del Monte Nuovo, avvenuto nel 1538, del quale si parla nel paragrafo successivo.
Come documentano le date riportate sopra, le diverse epoche di attività sono separate da periodi di quiescenza di lunghezza variabile, marcate dalla presenza di paleosuoli (Figura 7). Ad esempio, tra la terza epoca e il Monte Nuovo ci sono oltre 3000 anni di riposo mentre dall’eruzione del Monte Nuovo a oggi registriamo quasi 500 anni senza eruzioni.
Le eruzioni avvenute nel corso delle tre Epoche sono state oltre 70 e di queste solo quattro effusive. Esse sono state caratterizzate da un ampio spettro di energia, con distribuzione areale dei depositi anch’essa variabile tra qualche chilometro quadrato e qualche migliaio di chilometri quadrati. I volumi di magma emesso durante i singoli eventi sono compresi tra 0.01 km3 e 1.5 km3.
In quasi tutte le eruzioni esplosive vi sono fasi, a volte prevalenti, che derivano dall’interazione tra il magma in risalita e l’acqua di falda o di superficie. Si parla in questi casi di attività freato-magmatica, capace di frammentare il magma in particelle molto fini (la cenere vulcanica) e di generare correnti piroclastiche. In molti eventi vulcanici si rilevano alternanze di fasi da interazione magma-acqua e fasi dominate esclusivamente da esplosioni magmatiche. Le esplosioni magmatiche più intense sono avvenute durante le eruzioni pliniane (Figura 8) e hanno generato colonne eruttive di oltre 20 km di altezza, simili a quelle delle eruzioni pliniane del Vesuvio.
L’ultima eruzione: Monte Nuovo, 1538
Il Monte Nuovo si è formato in seguito ad un’eruzione esplosiva di scala piccola, durata una settimana. L’analisi delle caratteristiche e della distribuzione dei depositi delle diverse fasi e della morfologia del vulcano ha permesso di ricostruire che l’eruzione è stata alimentata da tre bocche eruttive (Figura 9) ed è stata caratterizzata da tre fasi, separate da brevi pause nell’attività.
La bocca eruttiva principale (numero 1 in Figura 9; Figura 10) è localizzata nell’area craterica del cono di tufo del Monte Nuovo, mentre due piccole bocche sono localizzate rispettivamente lungo i versanti meridionali e nord-orientali del piccolo edificio vulcanico (numeri 2 e 3 in Figura 9). Eruzioni alimentate da diverse bocche eruttive, nella caldera dei Campi Flegrei, sono avvenute anche prima di quella del Monte Nuovo: ne sono esempi recenti quelle di Averno, Solfatara e Astroni, tutte eruzioni esplosive avvenute negli ultimi 5.000 anni.
Sulla base delle loro caratteristiche vulcanologiche, i prodotti dell’eruzione del Monte Nuovo sono stati distinti in 5 unità eruttive, denominate da A ad E, dalla prima all’ultima eruttata. Il succedersi di queste diverse unità eruttive ci racconta che la dinamica dell’eruzione è cambiata nel tempo.
L’eruzione cominciò alle 7 del pomeriggio del 29 settembre 1538 con una fase esplosiva che durò due giorni e fu la fase principale dell’intera eruzione. Fu una fase dominata dalle cosiddette esplosioni freatomagmatiche che determinarono l’accumulo di depositi di pomici e cenere vicino al punto di emissione e costruirono il cono quasi come lo vediamo oggi (Figura 10). I prodotti di questa fase costituiscono l’unità A e vennero depositati durante lo scorrimento di dense correnti piroclastiche e dal lancio di frammenti intorno alla bocca eruttiva principale. In questa fase si innalzarono anche basse colonne eruttive che spinte dal vento depositarono ceneri fino alla città di Napoli. Subito dopo, si aprì una bocca eruttiva lungo il versante meridionale del cono che generò correnti piroclastiche i cui depositi di cenere (unità B) ricoprono quelli dell’unità A. La prima fase finì con esplosioni stromboliane da due bocche, quella meridionale (2 in figura 9) e una nuova apertasi lungo i versanti nord-orientali del cono (3 in figura 9). Le esplosioni generarono spessi depositi di scorie nere grossolane (unità C), distribuite solo in prossimità delle relative bocche eruttive.
Dopo queste esplosioni, l’attività eruttiva si fermò, per poi riprendere due giorni dopo con una nuova fase caratterizzata da una serie di esplosioni di modesta energia dalla bocca principale (1 in figura 9). I depositi di questa fase (unità D) sono composti da una sequenza di sottili strati di cenere e banchi di scorie scure, distribuiti sui fianchi del cono principale.
Seguì un’altra breve pausa fino al 6 ottobre, quando iniziò la terza ed ultima fase, probabilmente dovuta all’esplosione di un piccolo duomo lavico che si era formato sul fondo del cratere principale nei giorni precedenti. I prodotti delle esplosioni di quest’ultima fase eruttiva, costituiti da scorie molto dense (unità E), furono lanciati nell’atmosfera e ricaddero prevalentemente lungo i fianchi del cono. Dai documenti storici sappiamo che fu proprio questa fase finale a provocare la morte di 24 persone, salite sull’edificio appena formato in un momento di apparente quiete.
L’eruzione esplosiva del Monte Nuovo è una delle più piccole tra quelle avvenute ai Campi Flegrei e fu alimentata da un volume di magma stimato in 0,02 km3. Gli eventi di maggiore magnitudo (anche 100 volte più grandi) avvenuti negli ultimi 5.000 anni hanno avuto un impatto decisamente maggiore ed hanno coinvolto anche il territorio attualmente occupato dalla città di Napoli. Gli effetti dell’eruzione del Monte Nuovo sul territorio furono modesti e i vistosi fenomeni che hanno preceduto l’evento eruttivo permisero alle popolazioni residenti di allontanarsi per tempo e di mettersi in salvo.