Halloween è arrivato e come ogni anno iniziano le polemiche tra chi ama questa festa (apparentemente esportata dagli USA) e chi invece la ripudia additandola come festa del demonio e dei suoi adoratori. Ora, come in ogni tradizione secolare che si rispetti, è necessario discernere due elementi: la genesi e le origini della festa, e poi la sua evoluzione e trasformazione nel corso dei secoli.
Per quanto riguarda la tradizione della zucca intagliata, già un anno fa avevamo provato a svelarne le origini. Per approfondire leggi l’articolo:
Halloween non è la festa del demonio: la leggenda nasce da un uomo che sconfisse il diavolo
Oggi però, visti i toni della polemica, è forse il caso di fare una cosa diversa, ovvero sfatare il mito secondo il quale la festa sarebbe pagana e non avrebbe nessun nesso con il nostro Paese, e per farlo ricorreremo ad un carissimo e compianto scrittore italiano, Andrea Camilleri.
Ecco un brano tratto da “Il giorno che i morti persero la strada di casa” da I racconti quotidiani di Andrea Camilleri (Qua e là per l’Italia- Alma edizione, Firenze 2008):
Fino al 1943, nella nottata che passava tra il primo e il due di novembre, ogni casa siciliana dove c’era un picciliddro si popolava di morti a lui familiari. Non fantasmi col linzòlo bianco e con lo scrùscio di catene, si badi bene, non quelli che fanno spavento, ma tali e quali si vedevano nelle fotografie esposte in salotto, consunti, il mezzo sorriso d’occasione stampato sulla faccia, il vestito buono stirato a regola d’arte, non facevano nessuna differenza coi vivi. Noi nicareddri, prima di andarci a coricare, mettevamo sotto il letto un cesto di vimini (la grandezza variava a seconda dei soldi che c’erano in famiglia) che nottetempo i cari morti avrebbero riempito di dolci e di regali che avremmo trovato il 2 mattina, al risveglio.
Eccitati, sudatizzi, faticavamo a pigliare sonno: volevamo vederli, i nostri morti, mentre con passo leggero venivano al letto, ci facevano una carezza, si calavano a pigliare il cesto. Dopo un sonno agitato ci svegliavamo all’alba per andare alla cerca. Perché i morti avevano voglia di giocare con noi, di darci spasso, e perciò il cesto non lo rimettevano dove l’avevano trovato, ma andavano a nasconderlo accuratamente, bisognava cercarlo casa casa. Mai più riproverò il batticuore della trovatura quando sopra un armadio o darrè una porta scoprivo il cesto stracolmo. I giocattoli erano trenini di latta, automobiline di legno, bambole di pezza, cubi di legno che formavano paesaggi. Avevo 8 anni quando nonno Giuseppe, lungamente supplicato nelle mie preghiere, mi portò dall’aldilà il mitico Meccano e per la felicità mi scoppiò qualche linea di febbre.
I dolci erano quelli rituali, detti “dei morti”: marzapane modellato e dipinto da sembrare frutta, “rami di meli” fatti di farina e miele, “mustazzola” di vino cotto e altre delizie come viscotti regina, tetù, carcagnette. Non mancava mai il “pupo di zucchero” che in genere raffigurava un bersagliere e con la tromba in bocca o una coloratissima ballerina in un passo di danza.
A un certo momento della matinata, pettinati e col vestito in ordine, andavamo con la famiglia al camposanto a salutare e a ringraziare i morti. Per noi picciliddri era una festa, sciamavamo lungo i viottoli per incontrarci con gli amici, i compagni di scuola: «Che ti portarono quest’anno i morti?». Domanda che non facemmo a Tatuzzo Prestìa, che aveva la nostra età precisa, quel 2 novembre quando lo vedemmo ritto e composto davanti alla tomba di suo padre, scomparso l’anno prima, mentre reggeva il manubrio di uno sparluccicante triciclo.
Insomma il 2 di novembre ricambiavamo la visita che i morti ci avevano fatto il giorno avanti: non era un rito, ma un’affettuosa consuetudine.
Poi, nel 1943, con i soldati americani arrivò macari l’albero di Natale e lentamente, anno appresso anno, i morti persero la strada che li portava nelle case dove li aspettavano, felici e svegli fino allo spàsimo, i figli o i figli dei figli. Peccato. Avevamo perduto la possibilità di toccare con mano, materialmente, quel filo che lega la nostra storia personale a quella di chi ci aveva preceduto e “stampato”, come in questi ultimi anni ci hanno spiegato gli scienziati. Mentre oggi quel filo lo si può indovinare solo attraverso un microscopio fantascientifico. E così diventiamo più poveri: Montaigne ha scritto che la meditazione sulla morte è meditazione sulla libertà, perché chi ha appreso a morire ha disimparato a servire”.
Dunque, che dire? Camilleri come sempre riesce ad essere esaustivo e perfetto nella narrazione, utilizzando le parole e i concetti più semplici. Non solo spiega come la tradizione dei morti che tornano dall’aldilà non sia ‘cosa recente’, né tanto meno “un’americanata”, ma addirittura va’ oltre accennando all’albero di Natale, il quale non è affatto parte della nostra tradizione, eppure lo consideriamo tale. Dunque, perché l’albero di Natale sì e Halloween no?
Tra l’altro, in Calabria c’è un’antica tradizione che si svolgeva negli stessi giorni e che ha molte affinità con Halloween. I bambini di alcuni paesi della provincia reggina scavavano delle zucchine, quelle verdi tipiche del posto, e vi inserivano una candela all’interno. Il 2 novembre andavano in giro ‘case, case’, come direbbe Camilleri, e chiedevano “Ndi dati i morti?“, ovvero “Ci date i morti?“. In cambio di questa richiesta, che a ben vedere ricorda quella di “dolcetto o scherzetto”, ricevevano monete, castagne, noci, uva passa e altri frutti tipici dell’autunno.
Halloween, insomma, è semplicemente l’evoluzione, logica e fisiologica, di una tradizione che dura da secoli e che appartiene anche al nostro Paese. Continuare ad additarla come festa del demonio è un pericoloso retaggio di una cultura atavica e ottusa che non porterà a nulla. Anzi, che potrebbe portare a vedere come piccoli adoratori di Satana degli innocenti bambini vestiti da fantasmini o da streghette. Signore e signori, bentornati nel Medioevo!