Sembrerà strano ma può capitare che il paziente che entra in ospedale per una TAC non sia un malato ma un animale vissuto più di 40 milioni di anni fa. In questo caso il “paziente” è il cranio fossile di un archeoceto conservato al Museo di Storia Naturale dell’Università di Pisa e la TAC ha permesso di ottenere un’immagine tridimensionale delle sue delicate strutture interne. Importantissima è stata l’osservazione delle sottili lamine ossee legate al senso dell’olfatto che testimoniano come questi antichi cetacei avessero un fiuto intermedio tra quello ben sviluppato dei mammiferi terrestri e quello totalmente assente dei delfini o estremamente ridotto delle balene. Si tratta di una nuova importante “prova paleontologica” a conferma del fatto che i cetacei derivano da animali terrestri e in particolare dagli artiodattili, quel gruppo di mammiferi oggi rappresentato da cammelli, cervi, maiali e ippopotami.
Lo studio, da poco pubblicato su Journal of Anatomy, ha coinvolto il professor Giovanni Bianucci e il suo dottorando Emanuele Peri, paleontologi del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa, Giacomo Aringhieri, ricercatore del Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia dell’Università di Pisa e il professor Philip Gingerich, paleontologo del Museum of Paleontology, University of Michigan. Il reperto studiato è parte di uno scheletro descritto nel 2012 da Giovanni Bianucci e Philip Gingerich con il nome di Aegyptocetus tarfa. Si tratta di un fossile straordinario scoperto casualmente nel 2002 quando un marmista di Pietrasanta, in provincia di Lucca, aveva tagliato in lastre un blocco di calcare proveniente dall’Egitto.
“In questi ultimi anni – spiega Giovanni Bianucci – sono stati scoperti molti fossili di archeoceti eccezionalmente ben conservati che hanno permesso di ricostruire in dettaglio la progressiva trasformazione subita dal corpo di questi mammiferi per adattarsi alla vita acquatica: gli arti anteriori si sono trasformati in pinne pettorali e quelli posteriori sono scomparsi, sostituiti dalla pinna caudale. Grazie a queste scoperte, gli archeoceti rappresentano oggi una delle prove più solide a sostegno dell’evoluzione. La maggior parte di queste scoperte era già stata fatta quando ci siamo messi a studiare lo scheletro di Aegyptocetus tarfa: sembrava che non ci fosse niente di nuovo da dire a questo proposito, tanto più che gli arti di questo archeoceto non si sono conservati. Tuttavia, impressionati dall’eccezionale mineralizzazione e conservazione delle ossa di Aegyptocetus tarfa, abbiamo provato a ricostruire tramite la tomografia assiale computerizzata (TAC) l’anatomia interna del cranio e in particolare i turbinati, cioè quelle delicate lamine ossee che si trovano nelle cavità nasali dei mammiferi. Pertanto nel 2015 ho proposto a Emanuele, allora studente di Scienze e Tecnologie Geologiche, di sviluppare questa ricerca nell’ambito della sua tesi di laurea”.
“Siamo stati fortunati – afferma Emanuele Peri – perché grazie alla perfetta conservazione delle lamine ossee e all’elevato contrasto di densità tra l’osso e la roccia inglobante, è stato possibile ottenere migliaia di sezioni del cranio poi assemblate insieme da un software che ci ha permesso di ricostruire tridimensionalmente la forma dei turbinati. Ma la sorpresa maggiore è stata quando ci siamo accorti che in Aegyptocetus tarfa c’era grande differenza nello sviluppo dei turbinati responsabili dell’olfatto (ectoturbinati) e quelli deputati a inumidire e riscaldare l’aria per la respirazione (mascelloturbinati). I primi erano circa un quarto di quelli dei mammiferi terrestri attuali, suggerendo che questi archeoceti avessero ancora un olfatto piuttosto sviluppato, mentre i secondi erano estremamente ridotti ad indicare che avevano già perso la loro funzione”.
“Questa scoperta è molto importante – continua Bianucci – sia perché è la prima volta che i turbinati di un archeoceto vengono ricostruiti con questo dettaglio ma soprattutto per le preziose informazioni sull’evoluzione di questi mammiferi marini che l’esame di queste delicate strutture, in genere non conservate nei fossili, ci ha permesso di ottenere. Inoltre, il confronto tra i turbinati di Aegyptocetus tarfa e quelli di vari artiodattili ci ha dato un’ulteriore conferma che i cetacei derivano da questo grande gruppo di mammiferi attuali”.
“Tengo particolarmente a sottolineare – conclude il professor Davide Caramella, direttore della Scuola di specializzazione in radiodiagnostica dell’Università di Pisa – come questa collaborazione interdisciplinare sia di grande valore specialmente per i nostri giovani ricercatori. Infatti la sperimentazione di applicazioni innovative in un contesto per noi “atipico” come quello paleontologico può portare non solo a importanti scoperte scientifiche, come quella appena pubblicata, ma rappresenta anche un’occasione per volgere lo sguardo oltre i confini classici della nostra disciplina ampliando le prospettive della ricerca nel campo dell’imaging”.