“Oggi grazie all’immunoterapia, a 5 anni dalla diagnosi e anche oltre, più del 50% dei malati di melanoma al quarto stadio è vivo”, afferma l’americano James P. Allison, vincitore del Premio Nobel per la Medicina 2018. “Sono pazienti che prima del 2011, se non trattati, avevano davanti 7 mesi di vita” mentre ora “possiamo parlare di ‘cura’, termine impensabile fino a pochi anni fa, pure per altre forme di cancro. Il nostro obiettivo è aumentare le curve di sopravvivenza” anche nei casi che al momento non rispondono ai farmaci immunoterapici, “arrivando il più vicino possibile al 100% di malati che sopravvive”. E’ un sogno realizzabile? “Io sono molto ottimista”, confida lo scienziato.
“La strada sarà molto lunga, ma piena di soddisfazioni”, promette Allison dall’Aula magna dell’università Statale di Milano, dove è l’ospite d’onore del convegno internazionale ‘The healthcare to come’ sulla medicina di precisione, promosso da Fondazione Silvio Tronchetti Provera e Fondazione Umberto Veronesi, in collaborazione con l’ateneo meneghino.
Lo studioso – provetto suonatore di armonica a bocca e showman in una band chiamata non a caso ‘The CheckPoints’, come i regolatori chiave delle nostre difese naturali che Allison ha cominciato a scoprire – la sua ‘creatura’ la sta provando di persona: “Sto facendo IMMUNOTERAPIA per un tumore alla vescica – dice, confermando quanto già rivelato in passato – Mi è stato spiegato che il trattamento che seguo funziona nell’85% dei casi”, ma già prima “ho combattuto contro un tumore della prostata e un melanoma diagnosticati in fase molto precoce. Sono stato molto fortunato”, sorride.
Nella sua lecture, Allison ha ripercorso le tappe delle ricerche che lo hanno portato al Nobel. In particolare la scoperta dei ‘freni immunitari’ che rendono il cancro inizialmente invisibile alle naturali difese dell’organismo, e che occorre disattivare perché si accenda una risposta anti-tumore: “Per ora ne conosciamo due sui linfociti T, Ctla-4 e Pd-1 – precisa – ma ce ne sono tantissimi altri ancora da individuare” per allargare la platea di pazienti che possono trarre beneficio dall’immunoterapia.
“A 18 anni dalla terapia, la prima malata che ho trattato è viva senza recidive” e il gol da segnare è che tutti i pazienti possano avere la stessa speranza. Molte le buone notizie giunte in questi anni dagli studi scientifici. Ad esempio da uno dei primi, sull’anticorpo monoclonale anti Ctla-4 ipilimumab, è emerso che “dopo 3 anni la curva di sopravvivenza dei pazienti a un certo punto si appiattisce e resta costante, con il 20% dei malati in vita a 10 anni circa”. Ancora: “Abbiamo osservato che usando insieme ipilimumab e l’anti Pd-1 nivolumab”, quindi disinserendo contemporaneamente i due freni immunitari, “l’effetto è superiore rispetto alla somma degli effetti delle due singole terapie”. Per Allison la parola d’ordine per gli anni a venire è dunque “combinazione”. Associazione di immunoterapici, ma anche mix di approcci: “Inibitori dei checkpoint insieme a trattamenti convenzionali (chirurgia, chemio e radioterapia), terapie target ‘al bersaglio’, futuri vaccini terapeutici”.
Le domande alle quali rispondere per centrare il traguardo ‘100% vivi’ con l’immunoterapia sono diverse, concorda Padmanee Sharma, in forze alla University of Texas MD Anderson Cancer Center di Houston (Texas) come Allison, suo compagno nel lavoro e nella vita: “Perché alcuni pazienti rispondono e altri no? Possiamo identificare dei marker utili a prevedere chi risponderà e a quale schema terapeutico? Ci sono altre vie biologiche che possiamo colpire? I quesiti chiave che guideranno la nostra ricerca sono questi”, riassume.
“Possiamo dire che oggi il ‘bicchiere’ dell’immunoterapia è mezzo pieno e che in ricerca non c’è mai il tempo di gioire”, spiega all’AdnKronos Salute Pier Giuseppe Pelicci, direttore Ricerca e chairman del Dipartimento di oncologia sperimentale dell’Istituto europeo di oncologia (Ieo) di Milano, membro del Comitato scientifico della Fondazione Veronesi. Facendo una stima generale, “al momento con queste terapie il 30% dei pazienti ha una chance di cura – calcola l’esperto – e ricordiamoci che la parola cura contro alcuni tumori ce l’eravamo scordata, parlavamo di trattamento. Rimane però ancora l’altro 70% ed è a questo che dovremo rispondere”.
“Ciò che fa sperare – riflette Paolo G. Casali, che a Milano è associato di Oncologia medica all’università degli Studi e direttore di Oncologia 2 all’Istituto nazionale tumori (Int) – è che mentre molte terapie, anche a bersaglio molecolare, magari prolungano la vita solo un po’ e per questo l’oncologia medica in passato è stata molto criticata, l’immunoterapia ha la peculiarità di dare un plateau nella curva di sopravvivenza. Significa che c’è un sottogruppo di pazienti, magari oggi una minoranza, che ha un effetto a lungo termine. La questione diventa ora aumentarne il numero”. “Oggi la medicina di precisione non è più uno slogan o una materia da pionieri, ma è diventata realtà ed entra in una fase ‘adulta’ in cui è chiamata a nuovi compiti – commenta Paolo Veronesi, presidente della Fondazione Umberto Veronesi intitolata al padre che l’ha creata – La missione di medici e ricercatori è trovare le migliori soluzioni possibili e fare in modo che siano offerte a tutti coloro che possono davvero beneficiarne. Un percorso che ci può portare lontano, ma che va affrontato un passo dopo l’altro, senza sottovalutarne la complessità”.