L‘Isis rivendica l’attacco al London Bridge e definisce l’attentatore di Londra un suo “combattente“. Usman Khan, 28 anni, è il killer che ieri ha seminato morte e paura a London Bridge, armato di coltello e con un finto gilet esplosivo addosso. Nel suo folle attacco, ha ucciso 2 persone – un uomo e una donna – e ne ha ferite seriamente altre 3, prima d’essere affrontato da alcuni passanti ‘eroi’ e infine freddato dalla polizia. Si tratta di un simpatizzante di Al Qaeda, condannato per terrorismo e scarcerato in anticipo, pronto ad approfittare di una conferenza sulla riabilitazione dei detenuti per scatenare la sua furia e il suo odio. Sono inevitabilmente scoppiate le polemiche il giorno dopo l’attacco, soprattutto per quanto riguarda la “certezza della pena”, cavalcate con toni da pugno di ferro dal premier conservatore Boris Johnson a meno di due settimane dalle elezioni britanniche del 12 dicembre.
La dinamica di quanto accaduto nel venerdì di sangue di Londra appare ormai chiara. Khan, figlio di genitori pachistani cresciuto in Inghilterra, avrebbe agito “da solo“, stando alle prime indagini di Scotland Yard concentrate sul luogo dell’attacco – che solo in queste ore sta tornando alla normalità – e a Stafford, dove Usman abitava. Ha scatenato l’aggressione dapprima nella Fishmongers’ Hall, la sala all’imbocco del ponte in cui era stato ammesso come altri ex detenuti, con accademici e studenti a un incontro organizzato dall’università di Cambridge nell’ambito d’un programma di reinserimento. Per poi concluderlo in strada, sino alla colluttazione con chi, incluso un ex ergastolano, cercava di fermarlo anche a colpi di estintore, e agli spari definitivi e fatali d’un agente armato.
Pochi minuti di violenza e di caos destinati a innescare interrogativi e allarmi, mentre viene rivelata l’identità della prima delle due vittime: Jack Marritt, giovane laureato di Cambridge impegnato generosamente nel recupero dei detenuti attraversi l’istruzione. Il fatto è che Khan non era per nulla uno sconosciuto. La sua storia di jihadista in erba risale almeno al 2008, quando compare 18enne per la prima volta nei radar della polizia fra gli adepti di moschee come quella dominata dall’incendiario predicatore Anjem Choudary. E culmina nell’arresto nel 2012, con tanto di pesantissima condanna condivisa con 8 complici sulla base dell’accusa d’avere progettato un attentato dinamitardo contro la Borsa di Londra, d’aver raccolto minacciosamente informazioni sull’allora sindaco Boris Johnson, sul rettore della cattedrale anglicana di Saint Paul, sull’ambasciata Usa, su obiettivi ebraici. E ancora di aver pianificato la creazione di un campo di addestramento ispirato ad Al Qaeda su un terreno del Kashmir pachistano di proprietà della sua famiglia. Per questi crimini, la sentenza era stata severa: 16 anni. Salvo ottenere la libertà vigilata nel dicembre scorso, dopo neppure 7 di reclusione effettiva e col solo obbligo – rivelatosi clamorosamente inutile – di indossare un braccialetto elettronico di sorveglianza.
Da qui la bufera di polemiche, che Johnson è stato pronto a sollevare. Il primo ministro, deciso a evitare contestazioni sui servizi d’intelligence o sulla scelta certificata dal suo stesso governo di abbassare il 4 novembre l’allerta terrorismo nel Regno al livello più basso dal 2014, ha puntato il dito sul sistema giudiziario e sui benefici che garantisce. Usman Khan, ha tuonato Johnson a margine di una visita al London Bridge e prima della seconda riunione del comitato d’emergenza Cobra in due giorni, “aveva scontato solo metà della sua pena, è chiaro che il sistema degli sconti automatici non funziona”. “Non ha senso per la società che persone condannate per terrorismo e criminali violenti godano di scarcerazioni anticipate, ogni anno va scontato”, ha insistito rivendicando come una bandiera “il programma elettorale” Tory per “una maggiore severità nelle sentenze“. E per la settimana prossima si attendono a Londra i leader dei Paesi occidentali, per un summit celebrativo dei 70 anni della Nato destinato inevitabilmente a occuparsi pure di terrorismo. Intanto la Regina Elisabetta, con il consorte Filippo, si dice “rattristata dalla terribile violenza”, evocando “preghiere” per le vittime.