I farmaci nuovi? Li ricaviamo da quelli vecchi. La rivoluzione dell’approccio farmacologico che sta prendendo piede negli ultimi anni ha una nuova importante conferma in uno studio pubblicato oggi sulla rivista internazionale Nature Communications da due centri di ricerca di primo piano dell’Università di Trento.
Lo studio che indaga le parentele molecolari tra patologie e effetti farmacologici è frutto di un lavoro fianco a fianco tra due gruppi di ricerca nell’ambito dell’Ateneo trentino: quello del Cosbi (Fondazione The Microsoft Research – University of Trento Centre for Computational and Systems Biology), il centro che ha sviluppato competenze informatiche sui big data e quello del Dipartimento Cibio, specializzato invece in biologia e genomica.
Tutto parte dai big data: i farmaci esistenti e, in particolare, le loro proprietà molecolari sono stati analizzati attraverso un nuovo algoritmo messo a punto al Cosbi per capire se fosse possibile applicarli anche per altri tipi di patologie, accorciando così i tempi per gli utenti finali, i pazienti affetti da malattie ancora difficili o ancora impossibili da curare.
Si tratta di un approccio noto come “riposizionamento” o “drug repurposing”, già sperimentato in passato ma oggi divenuto realtà grazie alle nuove tecnologie che permettono un’analisi vasta, sistematica e veloce.
Il risultato di questa analisi computazionale è stato poi verificato al Cibio su larve di zebrafish per testare una risposta effettiva al farmaco.
Lo spiega la responsabile dell’unità di ricerca del Dipartimento Cibio, Maria Caterina Mione: «Con la somministrazione di questo farmaco in laboratorio abbiamo avuto prova di come sia possibile arginare gli effetti devastanti dell’obesità indotta da una dieta ricca di grassi. Il farmaco infatti è riuscito a contrastare l’infiammazione che accompagna l’accumulo di lipidi. Testare l’efficacia di un farmaco già in commercio permette di saltare tutta una serie di passaggi lunghi e impegnativi che sono necessari prima di immettere un nuovo prodotto sul mercato, dato che la tolleranza e la sicurezza del farmaco sono già garantiti a monte. I nostri dati sono preliminari, perché sarebbero necessari studi più approfonditi e, in ultimo, test clinici approfonditi, ma evidenziano come la combinazione tra esperienza nell’analisi di big data e capacità di sviluppare modelli per la validazione biologica possa dare una grossa spinta agli approcci di drug repurposing».
La scoperta del potenziale impiego di un farmaco già presente sul mercato per curare la sindrome metabolica è una notizia significativa. Per la sua diffusione e la gravità delle conseguenze sulla salute (patologie cardiovascolari e complicanze del diabete), questa patologia è diventata negli ultimi decenni un problema sociale, soprattutto nelle popolazioni con un più alto tenore di vita, esposte a una dieta più ricca di zuccheri e grassi e a una maggiore sedentarietà. Colpisce in particolare dopo i 50 anni, circa il 30 per cento degli uomini e circa il 35-40 per cento delle donne. Dopo la menopausa, infatti, la sindrome metabolica nelle donne ha una prevalenza più elevata.
Lo studio ha permesso di ridurre i tempi, ma le indicazioni sperimentali ora vanno comunque testate a livello clinico, prima del possibile utilizzo del farmaco per curare una patologia diversa da quella inizialmente prevista. Un processo che richiederà comunque anni di studio.