La prossima settimana il WWF illustrerà in un Convegno che si terrà a Roma l’ultimo dossier “Un futuro per i nostri fiumi” il documento sarà la base di riflessione per costruire una strategia che possa mettere in sicurezza i corsi d’acqua italiani, messi a dura prova dagli effetti dei cambiamenti climatici estremi soprattutto nelle città, partendo dalla ‘natura’. Oggi le città affrontano una sfida difficile, ovvero, come rispondere efficacemente ai cambiamenti climatici, riducendo gli impatti del rischio idrogeologico, attraverso una buona gestione degli ecosistemi acquatici. Oltre la metà della popolazione globale vive attualmente nelle città (in Italia è più di un terzo), una percentuale che potrebbe arrivare ai due terzi entro il 2050. Per il WWF investire risorse nell’adattamento climatico non e? “solo azione ambientale”, ma coincide con la promozione della qualità di vita dei cittadini e della sostenibilità dello sviluppo.
L’incontro promosso dal WWF coinvolgerà tutti gli attori potenziali di questa strategia presentando anche alcune ‘buone pratiche’ realizzate all’estero: l’obiettivo è quello di fornire proposte concrete al nostro governo per un adeguato e responsabile adattamento ai cambiamenti climatici.
Nel convegno verrà lanciata ufficialmente la campagna WWF #LiberiAmoifiumi che prevede eventi, iniziative, attività di citizen science per liberare i corsi d’acqua da inquinamento, sbarramenti e altri ostacoli che snaturano l’habitat dei fiumi italiani.
Purtroppo, spiega il WWF in una nota, “il cemento e gli sbarramenti lungo in fiumi, adottati finora come ‘finta soluzione di sicurezza’ al pericolo alluvioni, sono dei veri e propri moltiplicatori del rischio: negli ultimi 50 anni negli ambiti fluviali, attraverso le varie forme di urbanizzazione, si è consumato suolo per circa 2.000 km2, qualcosa come circa 310.000 campi da calcio. Il dossier cita alcuni casi come Aulla e Vara e Genova in Liguria.
Eppure in questo arco di tempo non sono servite da lezione nessuna delle tante tragedie che hanno segnato la storia del territorio italiano. Un caso emblematico, citato nel dossier, è proprio quello di Longarone, la città tristemente nota per la tragedia del Vajont che nel 1963 fece quasi 2000 vittime. L’area urbanizzata di Longarone prima di essere spazzata via, si sviluppava su 59 ettari, ma con la successiva ricostruzione questa superficie si è praticamente quadruplicata. I tre quarti dell’urbanizzato, soprattutto le grandi zone commerciali e industriali, sono state collocate vicino all’alveo fluviale, spesso in aree individuate dall’autorità di bacino come ad “elevata” o “media pericolosità”.
Ma il trend di consumo di suolo lungo le sponde fluviali ha riguardato tutta l’Italia, con un picco significativo proprio nell’ultimo decennio, proprio quando gli ammonimenti del rischio idrogeologico, amplificato dai cambiamenti climatici, avrebbero dovuto spingerci a riconsiderare le politiche di gestione del territorio.
I numeri sullo stato di salute dei fiumi, tra gli ecosistemi di acqua dolce i più minacciati sul pianeta, amplificano la drammaticità della situazione: il 60% delle acque europee non versa in buono “stato di salute” e in Italia non si sta meglio visto che solo il 43% dei fiumi è in un “buono stato ecologico”, come richiesto nella Direttiva Quadro Acque (2000/60/CE), mentre i laghi sono solo al 20%. Fiumi gran parte “canalizzati”, sbarrati da dighe e altri ostacoli che ne hanno interrotto la continuità, sbancati dei loro boschi ripariali, dragati nei loro alvei. Il prelievo d’acqua per le irrigazioni è avvenuto in modo insostenibile, eccessivo e con scarichi inquinati; molti centri abitati non hanno ancora sistemi di depurazione e fognari adeguati e, per tutto ciò, la commissione Europea ha avviato diverse procedure d’infrazione.
I fiumi sono una cartina tornasole della piaga del nostro territorio, il consumo di suolo: la mancanza di un’efficace pianificazione strategica ha consentito ai quasi 8000 comuni italiani di svilupparsi spesso in modo autonomo, rispetto al contesto territoriale a cui appartengono, e in modo scoordinato tra loro, esponendo i propri cittadini a una serie di rischi assolutamente non trascurabili.
Solo in Liguria quasi un quarto del suolo (23,8%) costruito entro la fascia di 150 metri dagli alvei fluviali, è stato occupato tra il 2012 e il 2015[1]. Si è costruito non solo a ridosso, ma dentro gli alvei. Secondo l’ISPRA solo nei tre anni prima del 2016 le regioni hanno continuato drammaticamente a consumare il suolo nelle aree di espansione dei fiumi, portando cemento e infrastrutture dentro la fascia dei 150 metri: il Trentino Alto Adige ha incrementato del 12% il consumo nelle fasce fluviali, il Piemonte del’9%, l’Emilia Romagna con dell’8,2%, la Lombardia dell’8% o la Toscana del 7,2% (ISPRA, 2016). Considerando l’assetto demografico dei territori che ricadono in fasce soggette alla pericolosità delle alluvioni (categoria media ed elevata ), possiamo dire che vi sono oltre 7,7 milioni di italiani a rischio alluvioni.
RIPARTIRE DALLA NATURA COME SOLUZIONE. Per cercare di contenere ed invertire questo trend sarà necessaria un’articolata, lunga e complessa azione che tenga conto della gigantesca dimensione sociale coinvolta; un’azione difficile ma indispensabile in quanto altrimenti, secondo la stima corrente, si potrebbe raddoppiare in soli 10 anni l’odierna densità dell’urbanizzato “disperso”, con effetti ancora più irreversibili.”
Qualcosa si sta muovendo: il dossier WWF offre molte soluzioni basate sulla natura (“nature based solution”) per recuperare le funzioni ecologiche del territorio partendo da alcuni casi di città europee che potrebbero essere riproposte nelle nostre città. Si tratta di casi di “sistemi di drenaggio urbano sostenibile” (Ruscello di Gohard, Nantes, Fiume Sprea, Berlino), “riqualificazione fluviale in città” (Fiume Marden, Calne, Fiume Isar, Monaco, Fiume Ravensbourne, Londra, Rio Mareta, Vipiteno, Fiume Great Ouse, Milton Keynes, Fiume Vidå, Tønder, torrente Lura in provincia di Como, Fiume Mayesbrook , Fiume Gallego, Zuera, il progetto europeo horizon2020: “clever cities”.
La rinaturazione è indispensabile per favorire il sempre più urgente adattamento ai cambiamenti climatici, ma è anche conveniente: da alcuni studi, ad esempio, sull’industria della rinaturazione (restoration ecology) si evidenzia che gli effetti occupazionali totali vanno da 10,4 a 39,7 posti di lavoro per 1 milione di dollari investiti, mentre con l’industria petrolifera e del gas ne supporta circa 5,3 posti per 1 milione di dollari investiti. [3]
[1] ISPRA, 2016 – Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici. Edizioni 2016. 248/2016
[2] ISPRA, Sistema per la Protezione per l’Ambiente, 2016 – Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici. 248:1-150/2016
[3] https://www.forbes.com/sites/ashoka/2014/01/08/now-this-is-what-we-call-green-jobs-the-restoration-industry-restores-the-environment-and-the-economy/#761c27a063dc