Leucemia Linfatica Cronica: fino all’80% dei malati chiede aiuto psicologico

Timore di essere un peso, senso di colpa, percezione di essere malato e quindi non integro, anche quando la malattia non si manifesta con sintomi evidenti
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Timore di essere un peso, senso di colpa, percezione di essere malato e quindi non integro, anche quando la malattia non si manifesta con sintomi evidenti. Per le persone che ricevono una diagnosi di leucemia linfatica cronica (Llc) è forte il bisogno di un supporto psicologico professionale, richiesto dal 57% dei pazienti in generale e sino all’80% di quelli più giovani; un aspetto ancora non previsto nell’iter terapeutico che potrebbe invece essere implementato.

E’ solo uno degli elementi emersi dal primo Patient Journey europeo sulla leucemia linfatica cronica, sviluppato a partire dal punto di vista del paziente chiamato a raccontare il suo incontro con la malattia e la sua storia. I dati sono stati presentati oggi dall’Associazione italiana contro leucemie, linfomi e mieloma (Ail), promotrice del progetto con il contributo non condizionante di Abbvie.

Ben 668 pazienti intervistati, provenienti da 32 centri ematologici diffusi su tutto il territorio nazionale: attraverso il racconto delle loro esperienze e del loro percorso, il Patient Journey è uno strumento ormai diffuso in medicina per esplorare l’impatto che la gestione delle malattie ha sulla vita dei pazienti e delle persone a loro vicine, dal momento della diagnosi a quello di cura.

L’obiettivo dell’imponente lavoro è identificare le aree di criticità che necessitano di interventi migliorativi, per rendere i percorsi di cura più coerenti con i bisogni dei pazienti e realizzare una mappa ideale del percorso di cura. “Il 75% dei casi di Llc – sottolinea il presidente Ail, Sergio Amadori – viene diagnosticato in pazienti con più di 60 anni. Il malato passa dal disorientamento della diagnosi al voler conoscere quanto più possibile della malattia per capire l’impatto sulla sua quotidianità e sulla sua vita di relazione. In più, spesso la malattia viene diagnosticata, ma non ha necessità di essere trattata subito. E questo disorienta i pazienti e le famiglie”.

“Il momento della diagnosi – spiega Felice Bombaci, referente del Gruppo Ail pazienti – è un ricordo che rimane impresso nella mente delle persone, una cicatrice indelebile nella memoria. La malattia irrompe come uno tsunami nella vita dei pazienti e dei loro familiari. La qualità del rapporto medico-paziente è un elemento determinante sull’efficacia della terapia: la giusta informazione, nella giusta dose, al momento giusto, con rivalutazione successiva”.

Dall’indagine emerge che proprio a questo momento clou non è dedicata sufficiente attenzione: se l’80% dei pazienti ha ricevuto la diagnosi da parte dell’ematologo e nel 63% dei casi si trovava in compagnia di un familiare o una persona cara (quindi uno su 3 era solo), ben l’81% sente il bisogno di ridiscutere con il medico aspetti che sono risultati poco chiari. Visite, controlli, spostamenti, attese, tempo dedicato alle terapie quando necessarie. Ma anche un tempo dell’attesa, imposto dall’approccio ‘watch and wait’, in cui esiste una diagnosi ma la malattia è in una fase in cui non è opportuno un trattamento, ma solo una osservazione attiva (interessa circa il 30% dei pazienti che ricevono diagnosi di Llc).

“L’unicità di questo progetto – evidenzia Paolo Ghia dell’Università Vita Salute San Raffaele di Milano – deriva dal fatto che è il primo a valutare l’impatto che la diagnosi di Llc ha sui pazienti, non solo dal punto di vista psicologico e umano, ma anche da quello più pratico, organizzativo e logistico, conseguente alle modifiche della quotidianità, tipiche di una malattia cronica che necessita controlli protratti e terapie ripetute nel tempo. Ne emerge che l’organizzazione dei percorsi di cura, più o meno efficiente, altera in modo critico la quotidianità, influenzando la qualità di vita delle persone coinvolte”.

Il tempo diventa un elemento che assume un significato nuovo, è il tempo della cura anche in assenza di terapia: da 2 a 4 ore per ogni controllo, la cui frequenza dipende dallo status del paziente. Criticità che il campione riferisce alla frequenza dei controlli per il 64% e al tempo trascorso in ospedale per il 67% a causa di spazi inadeguati, talora poco confortevoli e non idonei con il timore di essere esposti e contagiati da nuove malattie a causa della compromissione del sistema immunitario. Ore a cui si aggiungono da mezz’ora a un’ora per ciascun tragitto, dato che informa della buona capillarità dei centri sul territorio nazionale.

A margine del questionario i pazienti sono stati invitati a esplorare gli aspetti che potrebbero migliorare la loro qualità di vita, ecco quelli emersi: necessità di informazioni su terapie naturali di supporto alla chemioterapia; consigli sull’alimentazione più adeguata; richiesta di rassicurazioni che le nuove terapie siano veramente utili ed efficaci; necessità di ottimizzare e migliorare la qualità del tempo dedicato ai controlli trimestrali; riorganizzazione dei servizi assistenziali.

 

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