Una storia ‘infinita’ di sospetti, accuse, marce indietro, conferme e smentite. Si può dire che l’indagine scientifica sui possibili rischi legati all’uso dei telefonini nasca già con il debutto dei primi cellulari sul mercato. Il timore principale è uno: che esista un nesso fra cancro e un loro uso intensivo. Tanti gli studi che nell’arco di oltre due decenni si sono susseguiti. Alcuni hanno segnalato evidenze di un legame, altri non l’hanno rilevato. L’annosa questione torna sotto i riflettori con la sentenza della Corte d’Appello di Torino: secondo i giudici vi sarebbe nesso ‘causale’ o quantomeno ‘concausale’ tra il neurinoma del nervo acustico che ha colpito un dipendente Telecom che per anni aveva fatto un uso prolungato del telefonino, anche 4 o 5 ore al giorno, e l’utilizzo del cellulare. Un pronunciamento che conferma quello del Tribunale di Ivrea del 2017.
Sul fronte della scienza, la trama è più complessa: negli anni ci sono stati colpi di scena come quello del maggio 2011, cioè la decisione della Iarc, l’International Agency for Research on Cancer dell’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms), di classificare i campi elettromagnetici a radiofrequenza quali “possibili cancerogeni” per l’uomo. Ma non è mai stata scritta la parola fine. E la stessa Oms ancora nel 2017 ribadiva che, nonostante il “gran numero di studi condotti negli ultimi vent’anni per capire se l’uso del telefonino rappresenta un rischio potenziale per la salute umana“, “al momento non sono stati provati effetti avversi“.
Il ritmo è serrato: tornando indietro ai primi anni 2000, arrivano in sequenza uno studio danese, ricerche dagli Usa, dall’Australia, dalla Francia, dal Karolinska Institutet di Stoccolma (era il 2005 e il centro svedese pur non rilevando evidenze di danni puntualizzava che i cellulari erano in uso da troppo poco tempo). Stesse conclusioni sulla mancanza di prove erano contenute in uno studio internazionale condotto in 13 Paesi, Italia compresa. Cellulari scagionati, assolti per mancanza di prove; cellulari di nuovo sul banco degli imputati.
Siamo al 2004, ancora Svezia protagonista: uno studio di ricercatori del Karolinska osserva un rischio doppio di ammalarsi di neuroma acustico, una forma di tumore che colpisce il nervo dell’udito, ma precisa che il pericolo riguarda “i vecchi telefonini analogici“, mentre non si può dimostrare che lo stesso rischio valga anche per i modelli digitali. Nel 2005 e nel 2006 arrivano nuovi studi assolutori, questa volta dal Regno Unito e sempre dalla Svezia che continua la sua attività di ricerca analizzando diversi tipi di tumore (cancro al cervello compreso).
Nel 2007 nuovo contrordine: una metanalisi avverte che utilizzare il telefonino con continuità per oltre 10 anni, magari abusandone, può raddoppiare il rischio di sviluppare alcuni tumori del cervello. Nel 2008 arrivano nell’ordine un appello da autorità sanitarie Usa per nuovi studi che esplorino anche i potenziali rischi legati al wireless, uno studio giapponese che assolve ancora una volta i telefonini e un lavoro dall’Australia che invece paragona i cellulari al fumo e all’amianto.
Nel 2009 stesso discorso: uno studio danese, pubblicato online sul ‘Journal of the National Cancer Institute’, decreta che non c’è stato nessun aumento significativo dei tumori al cervello nei 5-10 anni successivi al boom dell’uso dei telefonini. I ricercatori hanno analizzato l’incidenza annuale di glioma e meningioma in ventenni di Danimarca, Finlandia, Norvegia e Svezia. Secondo i dati raccolti, l’incidenza nei 30 anni di osservazione (fra il 1974 e il 2003) è rimasta stabile. Nel frattempo, a distanza di mesi, un rapporto firmato da ricercatori di diversi Paesi elenca 15 motivi di allarme legati all’uso dei cellulari.
Gli anni scorrono così fra ordini e contrordini. Nuove accuse a cellulari e cordless nel 2012, nuovi studi che presentano prime evidenze sui rischi, nuove ricerche che dicono esattamente il contrario, come il recente lavoro australiano secondo cui “i tassi complessivi del tumore cerebrale sono rimasti stabili per tutto il periodo esaminato” dagli autori. E siamo al 2018. Parallele corrono le vicende giudiziarie.
Qualche caso: nel 2002 un giudice di Baltimora respinge la causa – del valore di 800 milioni di dollari – intentata contro nove aziende produttrici di cellulari. A portare i colossi della telefonia sul banco degli imputati un neurologo americano, Christopher Newman, per un tumore maligno diagnosticatogli dietro l’orecchio destro nel ’98, secondo lui attribuibile all’uso intensivo del cellulare. In Italia la prima segnalazione di un caso simile arriva nel 2012 proprio alla procura di Torino, sulla scrivania del Pm Raffaele Guariniello, che nella sua carriera è stato sempre molto sensibile ai temi di salute. La vicenda è quella di un 45enne che si era ammalato di glioblastoma. L’uomo aveva raccontato in Procura di aver usato il cellulare per circa 7 ore al giorno per motivi di lavoro negli ultimi 20 anni.
Nel 2017 era arrivata la sentenza di primo grado per il caso di Ivrea, su cui adesso c’è anche il punto messo dalla Corte d’Appello. E nel 2019 il tema torna in Aula, questa volta oggetto di una pronuncia del Tar del Lazio che dà sei mesi ai ministeri dell’Ambiente, della Salute e dell’Istruzione, per provvedere a una campagna informativa sulle corrette modalità d’uso di telefoni cellulari e cordless e sui rischi per la salute e per l’ambiente legati ad un uso improprio. La storia continua.