Italia e Corea del Sud sono separate da 8.000km, ma hanno alcune analogie quando si tratta di coronavirus. I focolai principali di entrambi i Paesi inizialmente ci sono stati in città minori piuttosto che nelle grandi metropoli, il che ha significato che la malattia ha rapidamente minacciato i servizi sanitari locali. Entrambi i Paesi hanno confermato i loro primi casi alla fine di gennaio. Ma la Corea del Sud, che ha una popolazione leggermente inferiore a quella italiana con circa 50 milioni di abitanti, ha imposto il lockdown ad alcune strutture e ad almeno un complesso di appartamenti colpito più duramente dall’epidemia. A differenza dell’Italia però, non ha intere regioni isolate.
Il Korea Centers for Disease Control and Prevention (CDC) ha reso noto che il totale dei contagi ha raggiunto quota 8.236, di cui 75 decessi e 1.137 dimessi dagli ospedali (+303 domenica), con una percentuale di guarigione salita al 13,8%. I nuovi casi di Coronavirus in Corea del Sud sono scesi ancora ieri a 74, dai 76 di sabato, attestandosi ai minimi di oltre 3 settimane. In Italia, invece, a 23 giorni dall’inizio dell’emergenza con la positività del 38enne di Codogno, ieri è stata una giornata drammatica, con il record di 368 morti in 24 ore e 2.853 nuovi casi di contagio accertati, per un bilancio totale di 24.747 contagiati, 1.809 morti e 2.335 guariti.
Ma cosa ha determinato numeri talmente tanto diversi tra Italia e Corea del Sud, dove l’emergenza è iniziata nello stesso periodo? La storia delle epidemie nei due Paesi mostra una differenza sostanziale nell’approccio. L’Italia ha iniziato con test ampi, poi ha ristretto il focus, in modo che ora le autorità non debbano elaborare centinaia di migliaia di test ma questo ha un lato negativo: è impossibile prevedere cosa succederà, nonostante a tutto il Paese sia stato richiesto di ridurre al minimo gli spostamenti. In Corea del Sud, invece, le autorità hanno testato centinaia di migliaia di persone, seguendo i potenziali trasportatori dell’infezione come detective, utilizzando la tecnologia satellitare e mobile. Ma riavvolgiamo il nastro.
A metà febbraio, la diffusione del coronavirus in Corea del Sud sembrava gestibile. Il Paese aveva circa 30 infezioni, prevalentemente da contatti noti con viaggiatori provenienti dalla Cina. Non c’era ancora nessuna vittima. Nel frattempo, dietro le quinte, una rete di laboratori aumentava la sua capacità per la possibilità di una trasmissione diffusa: erano pronti. Nelle prime settimane di febbraio, il Paese aveva testato quasi 10.000 pazienti – la maggior parte dei quali aveva ricevuto il via libera – nel tentativo di rilevare quanti più casi possibile. Nelle settimane a seguire, la Corea del Sud ha testato in media quasi 20.000 pazienti al giorno, più di qualunque altro Paese al mondo.
Le autorità hanno raccolto campioni in 50 cliniche “drive-through” sparse in tutto il Paese. Queste installazioni permettono agli automobilisti di restare nelle loro auto mentre rispondono ad un breve questionario scritto. Uno staff medico in tuta e occhiali protettivi si avvicina al finestrino, misura loro la temperatura corporea e preleva tamponi da naso e gola. Servono circa 10 minuti e soprattutto si minimizza l’esposizione degli operatori sanitari e degli altri pazienti nelle sale d’attesa degli ospedali.
Ma la Corea del Sud ha anche fatto un uso massiccio della tecnologia per tentare di contenere l’epidemia. Sono state istituite anche stazioni di test mobili e visite a domicilio, con la possibilità di giungere alla conclusione se un paziente è infetto o meno nell’arco di qualche ora. Anche se il numero delle persone contagiate è salito oltre gli 8.000, l’approccio aggressivo per quanto riguarda i test ha dato alle autorità sanitarie la capacità di individuare i focolai appena emergevano, di concentrare le risorse in queste aree e di isolare coloro che avevano il potenziale di diffondere il virus. “Il governo sta coprendo i costi finanziari per il test e il trattamento, invece di addossare alle persone queste spese. Il governo sta anche rimborsando le strutture mediche per le perdite provocate dalla quarantena imposta”, è emerso da un briefing del governo sudcoreano. “L’enorme capacità nei test ci permette di identificare i pazienti prima e di ridurre al minimo gli effetti dannosi. Questo è il mezzo più importante per difendersi dall’epidemia di una malattia contagiosa”, ha detto il viceministro per la salute e il welfare Kim Ganglip.
Ad oggi, la Corea del Suda ha confermato 8.236 casi e 72 morti, dopo aver testato oltre 274.000 persone in circa un mese e mezzo. L’individuazione precoce, l’isolamento e il trattamento si sono tradotti in un tasso di mortalità molto basso, di circa lo 0,7%, rispetto al 3,4% nel mondo (in Italia si attesta al 5,8%).
Lezioni dal passato
Gran parte del sistema di risposta che la Corea del Sud sta implementando nell’attuale emergenza coronavirus è stata forgiata dopo l’epidemia locale di MERS (Sindrome Respiratoria Mediorientale) del 2015, provocata da un coronavirus differente. All’epoca, i Korea Centers for Disease Control and Prevention si sono ritrovati incapaci di gestire l’improvviso aumento nella domanda di decine di migliaia di test nel bel mezzo della più grande epidemia fuori dall’Arabia Saudita, che alla fine ha ucciso 38 pazienti e ne ha infettati quasi 200. L’esperienza ha portato il Paese ha rivedere i suoi Korea Centers for Disease Control and Prevention e ad introdurre leggi per prepararsi alla prossima epidemia.
Centrale in questi cambiamenti è stata l’abilità di tagliare un processo burocratico lungo mesi per l’approvazione rapida dei kit per i test durante un’emergenza. Entro l’11 gennaio, quando la Cina aveva riportato solo 41 casi e l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) scartava la prospettiva della trasmissione da uomo a uomo, la Corea del Sud stava distribuendo test anche se non era ancora possibile eseguirli per il ceppo specifico del nuovo coronavirus. Entro il 31 gennaio, con 7 casi accertati in Corea del Sud, i kit per i test basati sul codice genetico del virus rilasciato dalla Cina sono stati distribuiti ai laboratori del governo sudcoreano in tutto il Paese.
Quando le autorità hanno scoperto un grande cluster di migliaia di infezioni nella città sudorientale di Daegu alla fine di febbraio, la rete delle istituzioni della sanità pubblica e gli ospedali e i laboratori privati erano già preparati. Fin dall’inizio, le autorità hanno eliminato il requisito che i pazienti avevano dovuto aver viaggiato all’estero per essere testati, che invece ha rappresentato un problema in Italia e Stati Uniti. Quando è stato chiaro che molti di coloro che avevano partecipato alle funzioni di una setta religiosa erano stati contagiati, le autorità hanno testato tutti coloro che avevano sintomi tra gli oltre 200.000 membri della setta. Quando è scoppiato un focolaio in un ospedale psichiatrico e in un call center, le autorità hanno richiesto un’indagine nazionale di tutti gli ospedali psichiatrici bloccati e di tutti i call center. Le autorità hanno iniziato anche a testare tutti i pazienti con polmonite senza cause note per il nuovo coronavirus. Ci sono 96 laboratori che analizzano i campioni, con i test che sono la massima priorità.
All’inizio, si ricorreva alla quarantena per tutti i contagiati in un letto di ospedale, ma poi i dottori hanno deciso di curare i pazienti con sintomi lievi nei centri residenziali per lasciare i letti d’ospedale a coloro che avevano bisogno della terapia intensiva. Le persone che risultano positive sono messe in quarantena e monitorate da remoto attraverso un’app o controllate regolarmente tramite chiamate al telefono finché non si libera un letto in ospedale. Quando questo accade, un’ambulanza trasporta il paziente in ospedale con camere di isolamento. “Non possiamo mettere in quarantena e curare tutti i pazienti. Coloro che hanno sintomi lievi dovrebbero stare a casa ed essere curati. Dovremmo cambiare la nostra strategia per ridurre i tassi di mortalità. Quindi altri Paesi come l’Italia, che vedono un enorme numero di pazienti, dovrebbero cambiare le loro strategie”, ha detto il Dott. Kim Yeon-Jae, specialista di malattie infettive del Korea National Medical Centre.
Hong Ki-ho, direttore del laboratorio di medicina al Seoul Medical Center e membro della task force COVID-19 della Korean Society of Laboratory Medicine, ha dichiarato che i CDC, i laboratori privati e i produttori della Corea hanno tutti contribuito ad un incremento della capacità di test senza precedenti. “Sembra un miracolo”, ha detto, notando il caos e la confusione che il ritardo nei test aveva causato durante l’epidemia di MERS. “È così tante volte la portata di quello che era durante la MERS e abbiamo avuto così poco tempo per prepararci”.
La Corea del Sud ha anche praticato il distanziamento sociale per cercare di bloccare l’aumento dei casi. Le scuole e gli uffici sono stati chiusi, i grandi eventi sono stati cancellati, le funzioni religiose sono state spostate online e il governo è riuscito a convincere le persone a stare lontano da Daegu, dove si concentra il 75% dei casi, senza trasformare l’intera città di 2,5 milioni di abitanti in una prigione. Alcune delle misure adottate dalla Corea del Sud sono state controverse soprattutto dal punto di vista della privacy, ma indubbiamente efficaci. Per esempio, le persone a cui era stata confermata l’infezione da coronavirus sono monitorate dal GPS e una mappa live delle loro posizioni è disponibile per chiunque voglia evitarle. Questo ha reso la popolazione informata e in controllo della propria salute. Negli ascensori si trovano bottiglie di disinfettante per le mani. All’ingresso degli edifici sono state posizionate telecamere ad immagine termica e ci sono persone negli spazi pubblici che ricordano di lavare le mani.
Per fermare l’esportazione del virus all’estero, il governo ha implementato un sistema di rilevamento a 3 fasi all’Incheon International Airport, con misure extra per lo screening per i passeggeri diretti negli Stati Uniti. Seul vuole dare agli altri Paesi la fiducia di poter continuare a fare affari con il Paese e di accettare i suoi cittadini, concentrandosi sempre sulla trasparenza e l’apertura.
Dopo un picco alla fine di febbraio, quando il numero delle infezioni era balzato fino a 900 al giorno, il ritmo delle infezioni in Corea del Sud è calato fino ai 74 nuovi casi di ieri. L’approccio utilizzato per contrastare l’epidemia in Corea del Sud pone il Paese come un esempio, un modello da seguire per le altre nazioni. La Corea del Sud ha gestito l’epidemia senza imporre le drastiche restrizioni ai viaggi imposte da Cina, Italia, Stati Uniti e altri Paesi, e anche senza esercitare il controllo autoritario della Cina, che costretto milioni di persone a stare in casa, pena la condanna a morte, o messo a tacere chiunque abbia osato criticare le azioni del governo. Rintracciare le persone, eseguire i test e curare: questo è il mantra in Corea del Sud. La sua esperienza può essere un modello per gli Stati Uniti, che hanno avuto problemi nei sistemi dei test e che si trovano indietro di settimane nella curva dei contagi. Finora, in USA e Giappone, la vera portata del problema non è ancora visibile. La Germania non ha avuto particolari limiti nei test, ma la Cancelliera Angela Merkel ha avvisato i tedeschi che considerando che il 60-70% della popolazione probabilmente sarà infettato, l’unica opzione è il contenimento.
Verso il ritorno alla normalità ma con la guardia alta
Lentamente, giorno per giorno, cresce il numero delle persone che ritorna per le strade di Seul. Ristoranti, bus e metropolitane stanno tornando ad essere affollate. Fare i conti con la minaccia del coronavirus è diventata la nuova normalità: la gente indossa la mascherina (se riesce a procurarsene una). Ma le autorità esortano a tenere la guardia alta: un grande focolaio in una chiesa, in un ufficio o in un condominio e tutto può cambiare. A Seul una chiesa protestante è stata individuata come nuovo focolaio del virus, dopo che 40 fedeli sono risultati positivi alla Covid-19. Decine di nuovi casi sono stati confermati nella provincia di Gyeongsan Settentrionale, Chungcheong Meridionale, Chungcheong Settentrionale Gyeongsand Meridionale e Busan.
Il governo sudcoreano intende rafforzare le misure di quarantena per i soggetti che operano in spazi di lavoro ristretti o affollati e presso le strutture pubbliche, per prevenire la moltiplicazione dei focolai di infezione in corso nelle grandi città del Paese. Il governo sudcoreano è tornato a sollecitare le aziende del Paese a ricorrere al telelavoro e a scaglionare gli orari di entrata e uscita dal posto di lavoro, per ridurre l’affollamento dei mezzi di trasporto pubblici. Kim Woo-joo, professore di epidemiologia presso l’Ospedale Guro della Korea University, ha avvertito che a Seul sono già stati confermati diversi casi di infezione di cui non è possibile individuare l’origine. Il primo ministro sudcoreano, Chung Sye-kyun, ha tenuto una conferenza stampa nella giornata di oggi, mettendo in guardia i cittadini dal rischio di una “super-trasmissione” del nuovo coronavirus a Seul e nell’area metropolitana circostante, dove vivono 2,5 milioni di persone. Le autorità della Corea del Sud hanno istituito una nuova “zona di attenzione speciale” attorno a Gyeongsan, una città di 275mila abitanti 250 chilometri a sud-est di Seul, tra le maggiormente colpite nel paese dall’epidemia del nuovo ceppo di coronavirus. L’annuncio segue la conferma di due nuovi casi di contagio tra i militari statunitensi di stanza nel Paese. Nei giorni scorsi Gyeongsan ha registrato un’impennata dei nuovi casi di contagio, ed è al momento la seconda città del Paese maggiormente colpita dall’epidemia dopo Daegu. Oggi il governo sudcoreano ha annunciato l’invio di decine di infermieri militari nell’epicentro nazionale dell’epidemia.
“La fiducia pubblica può essere guadagnata e sfruttata solo attraverso la piena apertura e la trasparenza. Questa fiducia pubblica ha prodotto un livello molto alto di senso civico e cooperazione volontaria che rafforza il nostro sforzo collettivo per superare questa emergenza sanitaria pubblica”, ha detto Lee Tae-ho, viceministro degli esteri. Immaginiamo che Pechino avesse adottato questa trasparenza e questa apertura 7-8 settimane prima: forse l’epidemia non sarebbe stata così grave.