“Quando non sono più riuscito a respirare, ho temuto di non rivedere mia moglie e i nostri quattro figli. Fino a quell’istante avevo curato gli altri attaccati dal Coronavirus. Ho visto pazienti morire, conosco la sua aggressività. Così ho pensato che magari il momento del congedo era venuto anche per me“: è la testimonianza di Angelo Vavassori, 53 anni di Treviolo, rianimatore all’ospedale di Bergamo, che dal suo letto di terapia sub-intensiva racconta a Repubblica come da “intubato e incosciente” si può tornare alla vita. “Se sono qui – afferma – lo devo ai miei colleghi medici, eroi non retorici” che “nei momenti più duri mi hanno fatto sentire tranquillo. La mia storia, in ore nere, può aiutare molti a non lasciarsi andare“.
Vavassori ripercorre tutti i momenti dell’incubo: dal 22 febbraio quando “ho curato i primi infettati“, a sabato 29 quando “mi è salita un po’ di febbre“. “Lunedì verso sera avevo già 38,9 di febbre“, ma “il paracetamolo era inutile” e l’ipotesi Covid-19 è sembrata la più logica. “Mi sono chiuso in una stanza di casa“, mercoledì 4 marzo, l’indomani la conferma del tampone: positivo. “La sera ho cominciato a respirare a fatica. In pochi minuti ho perso olfatto e gusto, ci vedevo sempre meno. Per la carenza di ossigeno sono saliti anche mal di testa e dissenteria“.
Serviva il ricovero, ma in ospedale “non c’era posto. Sapevo di non poter resistere a lungo. Respiravo, ma nei polmoni non entrava più ossigeno“. Finché “alle 23 mi ha chiamato un collega per dirmi che si era liberato un letto. La radiografia ha confermato che la polmonite era scoppiata“.
“La dispnea toglie totalmente il fiato – dice Vavassori – Mi hanno infilato subito nel casco” Cpap. “Ho provato a farcela senza essere sedato e intubato. Si perde comunque conoscenza, non è stato facile“. Il momento più difficile è stato l’inizio, ricorda il medico: “Nel casco della ventilazione il rumore è assordante, il flusso dell’ossigeno è caldo. Si suda e sembra di soffocare ancora più di prima. Invece un po’ alla volta senti che, se tiri, entra aria. Sono un rianimatore, per giorni ho curato i contagiati, conoscere le loro reazioni mi ha aiutato a resistere“. Come terapia c’era “il cocktail di antiretrovirali previsto dal protocollo“, ma lo stesso “per un paio di giorni sono stato assente. Avverti nel sonno che medici e macchine ti infondono ossigeno e ti idratano. Il tempo si concentra in un istante: ora so che è questa accelerazione che cancella passato e presente, il confine tra la vita e la morte“.
Poi il risveglio: “Pensavo di essere a casa, appena assopito. Invece nel letto accanto al mio c’era un paziente che avevo curato io per Covid-19. Come ai bambini, ogni cosa appare nuova e straordinaria. Questo dramma ci insegna il valore di ogni piccola cosa“. Adesso “sono in Gastroenterologia, riconvertita a Covid-19. Respiro con una mascherina che rilascia ossigeno al 70%, circa 12 litri al minuto. Accanto a me ci sono i miei malati: sono sorpresi quando capiscono che mi sono trasformato in uno di loro“.
A chi sta ancora lottando per sopravvivere, Vavassori raccomanda “di non farsi paralizzare dalla paura. Bisogna restare tranquilli e affidarsi ai medici. Ti tirano fuori, ogni polmonite regredisce. La mia preoccupazione però è un’altra: se penso ai medici e agli infermieri del nostro Paese, mi commuovo. Siamo allo stremo e sappiamo che la battaglia resta lunga. Chiedo a tutti di aiutarci restando in casa. E’ così che ci si sta vicino. Io da lunedì spero di ritornare al lavoro“.