Coronavirus, test anche a chi non ha sintomi: il modello della Corea del Sud, circa 8.000 casi ma solo 66 morti

In Corea del Sud sono stati effettuati circa 214 mila test, eseguiti su tutti coloro che avevano frequentato i positivi, sia che avessero dei sintomi sia che non li avessero
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L’epidemia di coronavirus in Corea del Sud è iniziata il 20 gennaio, ma è servito un mese affinché scoppiasse l’emergenza. Tra il 19 e il 21 febbraio, infatti, i casi sono passati improvvisamente da 70 a 346, soprattutto tramite il focolaio di Daegu, dove il paziente “numero 31” è una donna di 61 anni che prima di sapere di essere ammalata ha partecipato a varie funzioni religiose della Shincheonji Church of Jesus, un culto cristiano poco diffuso e circoscritto. Da quel momento, è una esclation di casi: il 23 febbraio sono già 602 positivi e 6 morti. In confronto, in Italia il 24 febbraio avevamo 221 positivi, ma già 7 morti.

Proprio il rapporto tra contagiati e decessi molto più basso rispetto al nostro, propone il modello coreano di gestione della crisi come un possibile esempio per l’Italia. Secondo i dati del Center for Systems Science and Engineering (CSSE) della Johns Hopkins University (JHU), la Corea del Sud oggi ha 7.869 casi e 66 morti, mentre l’Italia ha 15.113 casi e 1.016 morti, secondo l’ultimo aggiornamento della protezione civile. Non può essere solo una questione di età media, visto che secondo i dati della Banca Mondiale nei due Paesi la speranza di vita è di 82 anni (solo qualche decimale in più per noi). Per quanto riguarda la densità abitativa, essendo quella sudcoreana il doppio della nostra, dovrebbe giocare a loro sfavore, ma neanche questo ha inciso. Ciò che ha fatto la differenza è stata l’immediata attivazione di massicce misure di controllo della zona di Daegu, dove vivono 2,5 milioni di persone, ossia un quarto della Lombardia. A Daegu si trova il 75% dei positivi, e il 63% di questi appartiene al gruppo religioso Shinchonji.

Secondo un articolo online del magazine economico americano Forbes, sono stati effettuati circa 214 mila test, eseguiti su tutti coloro che avevano frequentato i positivi, sia che avessero dei sintomi sia che non li avessero, ha spiegato il New York Times. Questa scelta non viene invece attuata in Italia, dove aspettiamo la febbre prima di procedere al tampone. Secondo l’ultimo aggiornamento della protezione civile, fino a ieri, 12 marzo, erano 86.011 i tamponi effettuati in tutta Italia. Pochissimi i casi di test effettuati prima dell’insorgere della febbre: in Piemonte è avvenuto solo ai massimi livelli istituzionali dopo che il presidente della Regione, Alberto Cirio, è risultato positivo. Ma non sono stati controllati tutti i membri del suo staff, o i giornalisti che hanno lavorato con lui assiduamente.

Questa scelta in Corea del Sud, invece, ha drasticamente ridotto il numero di morti, che sono molto meno rispetto a quelli italiani. Sono crollati anche i positivi, che sono passati da 909 il 29 febbraio a 131 il 10 marzo, e la regressione continua anche grazie al blocco dei voli per la Corea del Sud che oltre 80 Paesi hanno deciso di attuare. La Corea del Sud, nell’arco di 20 giorni, fondamentalmente ha potuto dichiararsi fuori dalla pandemia. Speriamo che questo momento arrivi presto anche per l’Italia, contando sul senso di responsabilità degli italiani nel rispettare le direttive del Governo e anche sull’efficacia di quest’ultime.

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