Il 75mo anniversario della Festa della Liberazione, nell’era del Coronavirus, sarà diverso da tutti gli altri.
Le restrizioni in atto impongono ordine e prudenza. Sono lontani i giorni delle parate ufficiali, dei cortei, dei momenti di aggregazione politica e delle celebrazioni di massa. Quest’anno tutto viaggerà da casa, sui giornali, in rete, in radio, in tv, nei video.
Anche noi, a distanza, vogliamo ricordare il 25 aprile, omaggiando le donne. Le partigiane, fiere combattenti di un tempo passato, in cui il terrore dei bombardamenti, la fame e le ingiustizie erano l’unica verità possibile. Le donne, che “Bella Ciao” nasconde.
“Bella Ciao” viene da tutti considerata la canzone simbolo della resistenza partigiana contro l’invasore straniero, durante la seconda guerra mondiale. In realtà, alcuni sostengono, tra questi il giornalista Giorgio Bocca, che nel periodo bellico fosse conosciuta principalmente in Emilia Romagna. Sembra poi che, tra la fine degli anni ’40 e gli anni ’50, “Bella Ciao” sia stata utilizzata nel corso di manifestazioni e congressi a sfondo social- politico, per guadagnare, qualche anno dopo, la fama collettiva di straordinario inno alla libertà. Un potente manifesto in musica contro l’oppressore.
La melodia è di derivazione popolare, frutto di un miscuglio di culture e atmosfere, Italiane, ma anche francesi e dalmate. Il testo sembra ispirato, anche, ad antichi canti tradizionali di alcune zone del Nord Italia. Il battimani che accompagna la ballata è di effetto e le conferisce grande carattere. Peccato che l’artefice di questa “hit” di indiscusso successo sia sconosciuto, altrimenti, grazie ai diritti d’autore SIAE, avrebbe potuto mettere da parte una discreta fortuna.
In tempi recentissimi “Bella Ciao” è diventata la colonna sonora del movimento ambientalista giovanile “Friday for the future”. In precedenza persino un ex- premier francese, Hollande, l’aveva utilizzata al termine di un suo comizio. Il musicista Goran Bregovic la propone spesso nei suoi concerti al ritmo multiforme dei Balcani, ma l’elenco dei suoi interpreti ed estimatori è davvero considerevole e gira attorno al mondo, raccogliendo in un afflato corale l’urgenza di ognuno di lottare per la propria indipendenza e quella del suo popolo.
Poche canzoni riescono a smuovere le coscienze, suscitare emozioni profonde e a commuovere, come capita quando si ascolta o si canta “Bella ciao”. Il motivo di un tale prorompente pathos resta un mistero.
Forse il fascino emotivo che la avvolge è dovuto alle sofferenze e all’indignazione che l’epopea nazista, a cui viene di solito accomunata, ha cagionato in molti. Oppure deriva dal fatto che l’accenno all’ “invasore”, decontestualizzato e privo di espliciti riferimenti storici e geografici, la rende universale. L’invasore potrebbe essere il regime fascista, come era all’origine, oppure l’incubo nazionalsocialista di Hitler. Ma anche il totalitarismo di ogni terra, il capitalismo e il consumismo spinti agli eccessi, il pensiero unico e un qualsiasi altro nemico e oppressore. La libertà, in fondo, non è una prerogativa della Resistenza Italiana e trascende qualsivoglia partigianeria.
Ma, nella perfezione di questa intensa ballata, stranamente compare una nota semi-stonata. Prestando orecchio al testo, non solo alla melodia, sembra di capire che sarà un uomo a raggiungere i monti, per morire alla guerra da partigiano, da eroe. Un uomo che volge un ultimo sguardo alla sua ragazza e insieme a tutte le ragazze del mondo, un principe azzurro che prima di dileguarsi all’orizzonte, con il peso del dolore e del dramma incipiente, grida con nostalgia “Bella, ciao!”. Un saluto autentico, quasi una benedizione “urbi et orbi”, tutta virile.
Anche la nota frase di Piero Calamandrei, fondatore del Partito d’Azione, sembra confermare questa visione in un certo senso ingenuamente maschilista della Resistenza Italiana: “Era giunta l’ora di resistere, era giunta l’ora di essere uomini, di morire da uomini per diventare uomini”.
Dissipando la magica aura dell’eroe maschio “lassù in montagna”, unico ribelle tra i ribelli, gli storici osservano, però, che non è andata proprio così.
Durante la Resistenza, ca. 35.000 donne hanno lottato, accanto ai loro “compagni” uomini, nelle brigate partigiane. Hanno svolto l’arduo mestiere di staffetta in incognito, hanno curato le ferite non solo fisiche di un’Italia allo sbando, hanno sostituito gli uomini, partiti per il fronte, nel lavoro quotidiano, nelle fabbriche e nei campi. Combattendo, di fatto, come leonesse, una guerra tutta al femminile. In divisa, con abiti maschili o con gonne aggraziate e femminili. Ogni donna ha impugnato la sua guerra. Come soldatesse o in borghese, simili alla protagonista di “Roma città aperta”, ruolo grazie al quale la Magnani ottenne la fama mondiale.
In particolare le staffette, che avevano il compito di recapitare documenti segreti e armi o consegnare generi di prima necessità e vestiti, erano molto giovani, sui 14-18 anni. Il loro aspetto fresco e innocente le aiutava ad aggirare i posti di blocco e i controlli militari. Percorrevano chilometri su chilometri in bicicletta, sfidando i pericoli e le intemperie.
In un mondo scuro, spaventoso, erano il ritratto della passione, della tenacia, della gioia di vivere, convinte di creare un futuro migliore con i loro sacrifici. Come le donne più grandi, che partecipavano con ardore alla difesa della patria. Come la generazione dei nostri novantenni e di chi li ha preceduti, uomini e donne, quelli presenti all’appello e quelli che ci hanno lasciato, tutti accomunati da un ideale, da un sogno: la libertà.
Ogni anno, puntualmente, in occasione della Festa della Liberazione, giungono le consuete critiche e polemiche. In fondo, sostengono alcuni, anche i partigiani si sono macchiati di crimini atroci, come i loro persecutori. In fondo, le loro mani erano sporche di sangue, come quelle dei loro carnefici, che si sono immolati a loro volta per ciò in cui credevano.
La guerra è così, assomiglia ad un mastodontico cingolato, che tutto travolge e tutto distrugge. Non fa attenzione ai fili d’erba che calpesta, né alle vite umane che recide. E non sta a noi sentenziare, condannare o assolvere, fare revisionismo storico.
Dal 1945 ad oggi, nel mondo si sono susseguiti conflitti violentissimi e stragi. Ieri per es. è iniziato in Germania il processo a 2 degli artefici della guerra in Siria, che ha avuto inizio nel 2011, accusati di crimini contro l’umanità. Il pianeta è squarciato ogni ora da dissidi e ostilità.
Ma quella del 25 aprile 1945, che piaccia o no, resta la data della nostra Liberazione. Chiunque può riconoscersi nella ricorrenza, interpretare l’inno di “Bella Ciao”, ricordare le morti avversarie o le morti nel mondo. Ma il 25 aprile segna la fine della nostra guerra. L’Italia è ripartita da lì, da Stato monarchico è diventata Repubblica. Dal cumulo di macerie lasciato dai nemici e dagli alleati, è scaturita viva più che mai la nostra costituzione, che ad oggi resta una delle migliori al mondo.
E quelle giovani, con il vento tra i capelli e la luce negli occhi, che andavano ogni giorno incontro alla morte e che per lungo tempo sono state dimenticate, da ora in poi le ricorderemo sempre, con infinita gratitudine e ammirazione. Senza retorica. Accanto agli uomini leali e di grandissimo valore, che tanti anni fa hanno sconfitto il nemico e il destino.
Le donne della Resistenza si chiamavano Tina Anselmi e Oriana Fallaci, come raccontano le cronache, e al tempo stesso avevano mille altri nomi. Nomi importantissimi, anche se poco conosciuti. Non tutte erano Vip, ma tutte possedevano coraggio, generosità e cuore grande.
“Quando l’ingiustizia diventa legge, la resistenza diventa un dovere“, scriveva Bertolt Brecht. Per le donne, come per gli uomini e le creature di ogni specie.