Due mesi in prima linea nei reparti e nelle terapie intensive Covid-19 dell’IRCCS Ospedale San Raffaele – dove sono stati seguiti circa 1000 pazienti – hanno permesso a medici e ricercatori di identificare i soggetti a maggior rischio di sviluppare le forme più aggressive della malattia. Evidenze scientifiche che suggeriscono la necessità di uno stretto coordinamento tra la medicina del territorio e gli ospedali ad alta specializzazione per guidare la riapertura del paese in sicurezza durante la fase II, riporta un comunicato stampa del San Raffaele.
Nelle prime settimane del capitolo italiano della pandemia, i medici e i ricercatori del San Raffaele hanno avviato un maxi studio clinico osservazionale per capire di più della malattia e dei soggetti colpiti più gravemente. A guidare l’equipe il professor Alberto Zangrillo, direttore delle Unità di Anestesia e Rianimazione Generale e Cardio-Toraco-Vascolare, e il professor Fabio Ciceri, vice direttore scientifico per la ricerca clinica e primario dell’unità di Ematologia e Trapianto di Midollo.
Ma c’è di più, secondo le analisi di laboratorio i pazienti a maggior rischio hanno un basso numero di linfociti nel sangue – perché esauriti da una risposta immunitaria fuori misura – e valori elevati di alcuni marcatori che misurano la presenza di una reazione iper-infiammatoria. Sulla base di queste evidenze scientifiche è possibile costruire un percorso preventivo di screening, presa in carico e cura dei pazienti a rischio, che preceda il ricovero.
Per fare tutto ciò è però fondamentale costruire un’alleanza forte tra ospedali ad alta specializzazione, che hanno l’esperienza della malattia e i farmaci innovativi a disposizione, e la medicina del territorio, che grazie a una veloce identificazione può proteggere la popolazione di pazienti a maggior rischio di ricovero e mortalità.
“Attraverso un programma di screening e attraverso l’intervento tempestivo, innanzitutto a domicilio, possiamo gestire la patologia in anticipo, riducendo altamente la mortalità,” afferma Alberto Zangrillo. “Per fare un esempio, concreto, un iperteso con più di 65 anni, a fronte di un episodio febbrile non deve essere lasciato a casa nella speranza di un’evoluzione positiva del quadro clinico. Deve essere tempestivamente inserito in un percorso di diagnosi, monitoraggio e cura”.