Nelle ultime settimane, la situazione coronavirus in Italia è migliorata notevolmente. Il numero dei contagi giornalieri e dei malati si è ridotto significativamente e da qualche giorno, anche il numero dei decessi giornalieri è sceso ai livelli che osservavamo ai primi giorni di marzo. Al Sud Italia, è arrivato un caldo eccezionale per il mese di maggio, che ha infranto i record di temperatura del periodo, e nelle regioni meridionali la diffusione del virus ha incassato duri colpi, con nuovi casi e decessi praticamente azzerati. Questa è solo una delle ultime prove a conferma dell’influenza del clima sulla diffusione del virus, come sostenuto da molti studi scientifici sul tema.
Tra questi, vi è lo studio di Nicola Scafetta, professore di Oceanografia e Fisica dell’atmosfera dell’Università di Napoli Federico II, dal titolo “Distribution of the SARS-CoV-2 Pandemic and Its Monthly Forecast Based on Seasonal Climate Patterns”, pubblicato sulla rivista International Journal of Environmental Research and Public Health, che non solo analizza il rapporto tra coronavirus e clima, ma propone anche delle previsioni per i prossimi mesi.
“Il tasso di infezione dei virus respiratori è solitamente stagionale. Questo vale anche per famiglia coronaviridae del COVID-19. In generale, ci sono probabilmente diversi meccanismi biologici, fisici e della radiazione solare che possono influenzare stagionalmente la sopravvivenza e la trasmissione dei virus nell’aria, così come la suscettibilità del sistema immunitario dell’ospite”, scrive il Prof. Scafetta nel suo lavoro. “Le condizioni meteorologiche che facilitano questo tipo di malattie includono condizioni moderatamente fredde e secche, alta pressione, bassa velocità del vento e pioggia moderata, come successo da gennaio a marzo 2020 sia a Wuhan che al Nord Italia. Condizioni meteorologiche simili si sono verificate in altri Paesi, dove la pandemia è stata significativa, per esempio nell’Europa occidentale e negli Stati Uniti”.
“La principale via di trasmissione dell’infezione COVID-19 da persona a persona è attraverso il contatto con le goccioline d’acqua respiratorie emesse dalle persone infette. I contatti con superfici contaminate dalle secrezioni o dalle emissioni faringee potrebbero essere una via di trasmissione secondaria. Le goccioline d’acqua emesse che fluttuano nell’aria potrebbero essere piccole fino a 0,5-10 micron e trasportare i coronavirus, che hanno una dimensione di circa 120nm. Queste goccioline si generano quando, per esempio, le persone si soffiano il naso, tossiscono o starnutiscono, o semplicemente respirano. I polmoni, caldi e umidi, aggiungono umidità al respiro. Di conseguenza, quando le persone espirano in una giornata fredda, il vapore acqueo contenuto nel loro respiro condensa parzialmente mentre l’aria si raffredda. Quindi, quando la temperatura è bassa, ma non al punto di congelamento, e l’umidità relativa non è né troppo bassa, né troppo alta, come succede in inverno nelle regioni più colpite, le goccioline, che potrebbero trasportare i virus, si formano più facilmente e rimangono a fluttuare nell’aria più a lungo perché non evaporano facilmente, né precipitano velocemente a terra catturando ulteriore vapore acqueo. Di conseguenza, i virus potrebbero sopravvivere nell’aria protetti da una piccola gocciolina respiratoria abbastanza a lungo da infettare qualcun altro che potrebbe passare e inspirare queste goccioline”, chiarisce Scafetta.
“Un’alta temperatura e l’aria secca impediscono la formazione di queste piccole goccioline o le fanno evaporare velocemente, esponendo il virus direttamente all’aria che dovrebbe indurre una rapida distruzione del suo capside. Le goccioline più grandi emesse con la tosse cadono rapidamente a terra ed evaporano velocemente se l’aria è calda o molto secca, inducendo la rapida morte del virus. Condizioni gelide favoriscono la formazione di goccioline più grandi che cadono velocemente al suolo. La pioggia facilita la rimozione delle goccioline che trasportano il virus e i virioni perché li cattura nell’aria e li fa cadere al suolo. Anche l’alta umidità atmosferica relativa facilita la caduta di queste goccioline, impedendo loro di diventare sufficientemente piccole da fluttuare nell’aria abbastanza a lungo da raggiungere e contaminare grandi distanze. L’alta pressione atmosferica riduce la velocità del vento e la densità delle goccioline potrebbe aumentare nelle aree urbane. Gli inverni dell’emisfero settentrionale, inoltre, hanno meno ore di luce solare e di esposizione ai raggi UV che hanno un effetto sterilizzante. Inoltre, le condizioni fredde solitamente aumentano la suscettibilità delle persone agli attacchi dei virus, mentre le temperature estive più calde, più luce solare UVB e gli alimenti ricchi di vitamine rafforzano il sistema immunitario. Il freddo, inoltre, costringe le persone in ambienti chiusi e caldi”, dove “è più facile infettarsi a causa dello scarso ricambio d’aria”, dettaglia Scafetta nel suo studio.
“Quindi, ci sono numerosi meccanismi diretti e indiretti a supporto dell’ipotesi che le condizioni meteorologiche stagionali influenzano la diffusione di SARS-CoV-2, come osservato per molte altre infezioni respiratorie virali. In ogni caso, il virus stesso può sopravvivere anche alle alte temperature, poiché vive all’interno del corpo umano e quindi le persone potrebbero essere contagiate anche nei posti caldi, come osservato nel mondo. Questa evidenza, tuttavia, non contraddice il fatto che la pandemia di COVID-19 sia stata peggiore e si sia sviluppata più rapidamente in specifici Paesi che, durante l’inverno 2020, hanno condiviso comuni condizioni meteorologiche”, si legge nello studio.
Oltre a mettere in luce l’incredibile somiglianza tra le condizioni meteorologiche di Wuhan e della Lombardia da gennaio a marzo 2020, soprattutto per quanto riguarda temperatura e umidità (per maggiori dettagli: Coronavirus, come il Meteo influenza la pandemia: “Il freddo di marzo ha favorito il contagio in Italia, attenzione alla seconda ondata”), Scafetta sottolinea anche che “il numero di vittime si riduce drasticamente spostandosi verso le regioni meridionali italiane che erano, in media, di circa 2°C più calde, avevano venti più forti” e avevano una maggiore umidità relativa. Scafetta giunge alla conclusione che “temperature comprese tra +4°C e +12°C circa, insieme a condizioni meteorologiche di bassa umidità relativa e basse velocità del vento, potrebbero essere quelle che favoriscono principalmente la propagazione del COVID-19 e/o aggravano la suscettibilità delle persone alla sua polmonite secondaria”.
Anche gli Stati Uniti, che sono il Paese con il maggior numero di casi confermati nel mondo, hanno avuto “condizioni meteorologiche relativamente simili a quelle dell’Europa occidentale a marzo e di Wuhan a febbraio”. I dati confermano che “la letalità del COVID-19 è stata peggiore negli stati con temperatura media tra +4°C e +12°C. In questo intervallo di temperatura, ci sono 30 stati con una media di 82 vittime ogni milione di persone, con New York che è lo stato più colpito con 591 vittime ogni milione di persone. Ci sono altri 21 stati più freddi o più caldi e hanno avuto in media 34 vittime per ogni milione di persone”, scrive Scafetta. Escludendo lo stato della Louisiana che, nonostante una temperatura di +23°C, ha 237 vittime ogni milione di persone probabilmente a causa delle celebrazioni del carnevale con oltre 1,4 milioni di persone da tutto il mondo che si sono riversate nella città di New Orleans per il Mardi Gras a fine febbraio, “ci sono 20 stati più freddi o più caldi rispetto all’intervallo +4-12°C che hanno avuto in media 23 vittime ogni milione di persone. Questo suggerisce che la letalità del COVID-19 negli stati con una temperatura media di +4-12°C è stata in media quasi 4 volte più grande rispetto agli altri stati: rispettivamente l’80% contro il 20%”, precisa lo studio. I dati confermano anche che “gli stati con livelli di umidità relativa compresi tra il 60% e il 75% sono stati i più colpiti. All’interno di questo intervallo, 35 stati hanno una media di 81 vittime ogni milione di abitanti. Gli altri 16 stati hanno in media 21 vittime ogni milione di abitanti. Ancora l’80% contro il 20% rispettivamente”.
Estendendo l’analisi ai continenti, lo studio del Prof. Scafetta mette in evidenza che “i Paesi dell’Europa occidentale e gli Stati Uniti, insieme a pochi altri Paesi con condizioni climatiche simili, sono stati i più colpiti dalla pandemia di COVID-19”. 151 Paesi del mondo con una popolazione almeno di un milione di persone sono stati suddivisi in 3 zone climatiche: la prima comprende 13 Paesi freddi con temperature medie di marzo inferiori ai +2°C; la seconda comprende 41 Paesi temperati con temperature medie di marzo di +2-14°C; la terza comprende 97 Paesi caldi con temperature medie di marzo superiori ai +14°C. L’analisi “mostra chiaramente che i Paesi con temperature medie di marzo di +2-14°C sono stati i più colpiti dalla pandemia di COVID-19: la mediana del numero di casi ogni milione di persone è quasi 20 volte più alta della media dei Paesi caldi. Nei 97 Paesi caldi, solo 21 hanno avuto un numero di casi per milione di persone superiore a 100. Inoltre, anche se ci sono pochi Paesi caldi con un alto numero di casi per milione di abitanti, il loro tasso di mortalità ha avuto una mediana di 4,6 volte inferiore rispetto ai Paesi che appartengono al secondo gruppo. Di conseguenza, l’evidenza è che essere infettati in Paesi caldi porta a condizioni cliniche meno gravi. Lo stesso risultato, tuttavia, potrebbe anche essere causato da un’età media della popolazione relativamente bassa di diversi Paesi caldi, come quelli africani”, rileva lo studio.
Inoltre, dopo aver diviso i Paesi con oltre 100 casi ogni milione di persone (65 Paesi), i dati dimostrano che “in media, i Paesi con valori di umidità relativa compresi tra 60 e 85% erano i più colpiti dalla pandemia con i tassi che scendevano notevolmente per valori di umidità relativa inferiori al 60%. I risultati confermano quelli rilevati per Italia e USA e indicano ulteriormente che la diffusione e i tassi di letalità della pandemia di COVID-19 sono prevalentemente legati alle condizioni meteo-climatiche”, scrive Scafetta, che dedica parte del suo lavoro all’analisi di possibili fattori contribuenti, tra cui l’inquinamento atmosferico.
L’analisi “suggerisce una scarsa correlazione perché Paesi altamente inquinanti, come India e Paesi del Sud-Est asiatico (come la Cina meridionale, Hong Kong e Taiwan) sono stati modestamente colpiti dalla pandemia. I caldi e secchi Qatar, Bahrein ed Emirati Arabi Uniti con le loro capitali affollate e molto inquinate hanno avuto un numero di casi (1288, 982 e 542 casi ogni milione di abitanti, rispettivamente) probabilmente a causa dei loro collegamenti internazionali, ma solo 2, 4 e 13 vittime ogni milione di persone, rispettivamente. È un tasso di mortalità quasi 50 volte più basso di quello osservato in Italia e altri Paesi dell’Europa occidentale. Alla data del 15 aprile 2020, sui 151 Paesi del mondo con una popolazione di oltre un milione di persone, tra gli 80 Paesi che avevano almeno 50 casi/1 milione, quelli con un tasso di mortalità di oltre il 10% erano 7 e in Europa occidentale: Belgio, Italia e Regno Unito (13%); Francia (12%); Paesi Bassi (11%); Spagna e Svezia (10%). Al contrario, gli ultimi 7 Paesi erano tutti in zone calde: Emirati Arabi Uniti (0,6%); Oman, Bahrein, Hong Kong (0,4%); Singapore (0,3%); Kuwait (0,2%) e Qatar (0,15%). Da notare che gli ultimi 7 Paesi sono ben collegati a livello internazionale, con città ad alta densità abitativa e tecnologia medica non superiore a quella dei Paesi europei. Di conseguenza, i diversi tassi di letalità, di un fattore di 20 e oltre, osservati tra i due gruppi probabilmente sono dovuti alle condizioni climatiche invernali molto diverse, con i Paesi europei molto più freddi degli altri”, si legge nello studio. Il Prof. Scafetta giunge così alla conclusione che “la diffusione e i tassi di mortalità relativamente bassi del COVID-19 e il basso rapporto tra la mortalità e i tassi di infezione osservati nei Paesi caldi rispetto ai livelli di alta mortalità dei Paesi più freddi, come quelli in Europa e negli Stati Uniti, indicano che il meteo, e non l’inquinamento atmosferico, è il principale fattore per la diffusione e la letalità della pandemia di COVID-19”.
Sulla base delle mappe isotermiche elaborate, lo studio indica inoltre la possibilità di una seconda ondata di infezioni in autunno nell’emisfero settentrionale, con il ritorno della stagione fredda. “In generale, la pandemia potrebbe tornare nelle regioni alle medie latitudini con un ciclo di 6 mesi e nelle altre regioni con un ciclo annuale. Anche se la trasmissione del COVID-19 dovrebbe scendere con l’aumento delle temperature, il virus potrebbe non sparire completamente. Il tasso di infezione potrebbe semplicemente rallentare, come suggerito dalle evidenze che le persone si infettano anche nelle regioni calde, sebbene in queste località, la percentuale di vittime per milione di persone sembri essere notevolmente più bassa rispetto alle regioni fredde”, conclude lo studio del Prof. Nicola Scafetta.