“Sappiamo tutto e niente su SARS-CoV-2”: sintetizza così Matt Ridley, giornalista e uomo d’affari britannico, noto per i suoi scritti su scienza, ambiente ed economia, in un articolo per The Spectator. “Possiamo leggere ognuna delle 29.903 lettere del suo genoma e sapere esattamente come i suoi 15 geni sono trascritti in istruzioni per creare le proteine. Ma non riusciamo a capire come si sta diffondendo abbastanza in dettaglio da dire quali parti del lockdown della società sono necessarie e quali sono futili. Dopo diversi mesi nella crisi, brancoliamo ancora nella nebbia dell’ignoranza e commettiamo errori. Ogni nuova malattia è diversa e la sua epidemiologia diventa chiara solo gradualmente e in retrospettiva. Il Covid-19 è trasmesso principalmente attraverso il respiro o il contatto? I bambini lo trasmettono senza ammalarsi? Perché è peggiore in Gran Bretagna che in Giappone? Perché le persone obese sono particolarmente a rischio? Quante persone l’hanno avuto? I ventilatori sono utili dopo tutto? Perché non sta esplodendo in India e Africa? Ci sarà una seconda ondata?”, sono le domande che Ridley si pone per sottolineare le incertezze che circondano ancora la malattia.
“Di conseguenza, non sappiamo davvero cosa funzioni. È possibile che lavare le mani, non stringere la mano agli altri, non riunirsi in grandi folle e indossare una mascherina in pubblico, ma non più di questo, possa essere sufficiente, come sembra suggerire la Svezia. Chiudere forzatamente scuole e negozi e controllare aggressivamente le persone nei parchi potrebbe aver aggiunto poco in termini di riduzione del tasso di diffusione. C’è un fatto fondamentale che emerge dalla nebbia. I Paesi che hanno condotto molti test dall’inizio se la sono cavata molto meglio dei Paesi che hanno fatto pochi test. Questo vale non solo per molti Paesi asiatici, come la Corea del Sud, ma anche in Europa. Fino a metà dello scorso mese, Islanda, Lituania, Estonia e Germania avevano condotto molti più test per milione di abitanti e registrato molti meno decessi per milione di persone rispetto a Belgio, Gran Bretagna, Italia e Svezia. Il più grande errore della Gran Bretagna è non essere riuscita ad incrementare i test a metà marzo, non quello di non aver bloccato prima l’economia”, scrive Ridley, che cita Max Roser del sito web Our World in Data: “I Paesi con i tassi di mortalità più alti vi sono arrivati avendo i tassi di test più bassi”.
“I test non curano la malattia”, spiega Ridley. “Lo strano successo della Germania di un tasso di fatalità costantemente basso sembra sconcertante, finché non pensate al posto in cui è stata rilevata la maggior parte dei primi casi: negli ospedali. Facendo molti test, Paesi come la Germania, potrebbero aver parzialmente impedito al virus di diffondersi all’interno del sistema sanitario. Germania, Giappone e Hong Kong hanno avuto protocolli diversi e più efficienti in vigore dal primo giorno per prevenire che il virus si diffondesse all’interno di case di cura e ospedali. L’orribile verità è che ora sembra che in molti dei primi casi, la malattia sia stata probabilmente contratta negli ospedali e negli studi medici. Ecco dove il virus ha continuato a tornare, nei polmoni dei malati, ed ecco dove la prossima persona lo ha contratto, inclusi molti operatori sanitari. Molti di loro potrebbero non aver realizzato di averlo o pensato di avere un lieve raffreddore. Poi lo hanno trasmesso a pazienti ancora più anziani, che erano in ospedale per altre ragioni, alcuni dei quali sono stati rimandati nelle case di cura quando il Servizio Sanitario Nazionale ha liberato spazio nei reparti per l’attesa ondata di pazienti da coronavirus”, scrive Ridley nella sua attenta analisi.
“Le evidenze sia da Wuhan che dall’Italia suggeriscono che è stato negli ambienti sanitari, tra gli anziani e fragili, che l’epidemia si è amplificata inizialmente. Ma le autorità cinesi sono poi state attente a mettere in quarantena coloro che erano risultati positivi in strutture speciali, tenendoli lontani dagli ospedali, e questo potrebbe essere stato fondamentale”. Questo non è successo in Italia, soprattutto al Nord, dove gli ospedali sono stati subito travolti dall’ondata di malati, con un’ampia diffusione tra il personale sanitario e il dramma delle case di cura dove sono morti migliaia di anziani.
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“È probabile che le persone fragili e anziane abbiano più probabilità di andare in ospedali o cliniche per altre malattie ed è stato lì che molti di loro sono stati contagiati tra febbraio e marzo”, sostiene Ridley, che per questo parla di “malattia nosocomiale (acquisita in ospedale)”. Se fosse almeno parzialmente così, “la pandemia potrebbe esaurirsi più velocemente del previsto”, afferma il giornalista britannico. “Se guardate i numeri pro capite di diversi Paesi in Europa, mostrano tutti un rallentamento del tasso di crescita prima di quanto ci si aspetterebbe dai lockdown”, il che “potrebbe aver senso se fosse l’affievolimento dell’iniziale ondata acquisita negli ospedali”, scrive Ridley. “Il famoso R (R0 all’inizio) o tasso riproduttivo del virus potrebbe essere stato molto alto in ospedali e case di cura e molto più basso nella comunità. Non ha senso parlare di un solo numero per tutta la società”, evidenzia.
“Uno studio di 391 casi di Covid-19 e 1.286 dei loro contatti nella regione cinese di Shenzhen ha svelato che l’80% di casi sono stati trasmessi solo dal 9% dei portatori e che solo l’11% di coloro che condividono la casa con un caso ha contratto il virus. Al contrario, uno studio in una casa di cura dello stato di Washington ha svelato che 23 giorni dopo la prima diagnosi di un caso positivo, il 64% di residenti è risultato positivo, metà dei quali non mostrava sintomi. Un’analisi della Dott.ssa Muge Cevik della Saint Andrews University di 14 studi simili ha concluso che è necessario il contatto ravvicinato e prolungato per trasmettere il virus e che il rischio è più alto negli ambienti chiusi: famiglie, strutture di assistenza a lungo termine e trasporto pubblico. Ha aggiunto: “Le interazioni brevi e casuali non sono il principale fattore. L’intensità dell’epidemia è fortemente plasmata dall’assembramento”, riporta Ridley.
“Se le persone anziane, obese e fragili non sono solo a maggior rischio di morire, ma anche più suscettibili e contagiose, allora per definizione, gli altri lo sono meno. Se fosse così, quando l’epidemia è sotto controllo in ospedali e case di cura, la malattia potrebbe sparire comunque, persino senza lockdown. In forte contrasto al modello tra gli anziani, i bambini non trasmettono molto il virus, se non affatto”, scrive il giornalista britannico, citando i risultati di un’analisi di pediatri. “Più il coronavirus ha bisogno di utilizzare le persone più giovani per circolare, più basse sono le sue possibilità di sopravvivere. La luce solare in estate dovrebbe ulteriormente rallentarlo, sia uccidendo il virus direttamente e sia aumentando i livelli di vitamina D. La vitamina D protegge da raffreddore e influenza e soprattutto alla fine dell’inverno è spesso carente in persone obese, dalla carnagione scura o anziane, tutti più suscettibili al Covid-19. In uno studio in Indonesia, i casi di Covid-19 con carenza di vitamina D avevano probabilità 19 volte maggiori di morire a causa della malattia rispetto alle persone con livelli adeguati”, aggiunge Ridley. “Non sarà semplice e ci saranno degli intoppi, ma i test, seguiti dal tracciamento, sono chiaramente il modo per uscirne fuori”, conclude.