Tre mesi fa ca. un ospite sgradito e invadente è entrato, senza invito, nelle nostre case. Si tratta del Covid-19, un virus o meglio, il Coronavirus, chiamato così per la sua strana forma: una sfera ricoperta di punte, proprio come una corona.
Covid-19, come tutti sappiamo ormai, inizialmente pareva un vermetto innocuo. Ben presto, però, si è rivelato potenzialmente mortale. Subdolo, insidioso. Un virus beffardo, che ha mutato velocemente forma per poter colpire meglio. Inafferrabile e imprevedibile.
Abbiamo accettato con difficoltà le restrizioni, tuttora in vigore, adottate dal Governo per limitare e bloccare il diffondersi della pandemia da Coronavirus. La limitazione delle nostre libertà personali, il contagio e la paura del contagio, la malattia e il terrore di contrarre la malattia, l’isolamento sociale in un mondo prima chiassoso. Tutto ciò ha stravolto le nostre vite, ha segnato nel profondo la nostra salute mentale, la nostra psiche. Non potendo incollare rassicuranti etichette ai cambiamenti- tutto per noi era ignoto e sconosciuto- ci siamo rifugiati in un diffuso sentimento di angoscia. Il sospetto che potesse accadere qualcosa di sgradevole, al di fuori del nostro controllo, ha generato il panico.
Improvvisamente la dimensione personale di ognuno è stata assorbita dagli effetti di un trauma collettivo, di proporzioni mai sperimentate negli ultimi decenni, un trauma simile a quello lacerante e cupo dell’ultimo conflitto mondiale. Anche se il paragone guerresco, che la stampa italiana ed estera ha talvolta utilizzato, in questo caso è inappropriato. Poiché la maggior parte di noi ha combattuto la triste battaglia contro il Coronavirus non in trincea, ma dal divano di casa, masticando cibo e ansia, sparando in rete raffiche di proiettili a forma di click, seguendo i bollettini della Protezione Civile in tv, come fossero puntate di un telefilm.
Una vasta gamma di stati d’animo ha riempito le nostre giornate, gradi scomposti di in-consapevolezza ci hanno guidato attraverso l’isolamento forzato, al confine con il dramma. Dapprima, all’origine del male, alcuni di noi si sono irrazionalmente scagliati contro il diverso, l’untore di un’altra etnia (Italiani vs. Cina, UE vs. Italia, ad es.).
Poi, man mano che il tempo scorreva, ci siamo trovati a percorrere, ciascuno in casa propria ma tutti insieme idealmente, un sentiero immaginario. Ripido, a più livelli. Simili a quelli che contaddistinguono l’elaborazione di un vissuto carico di stress, come è stato confermato anche dall’Ordine degli Psicologi. I nostri sono stati più o meno 5.
Livello 1. Il meccanismo di difesa della negazione ha spinto molti a ritenere che il Covid-19 fosse in realtà una ordinaria sindrome influenzale, sminuendo così la reale portata del problema. Livello 2. L’incredulità e lo sconcerto hanno preso il sopravvento: a quale incubo apparteneva l’entità surreale che ci sovrastava, possibile che fosse tutto un brutto sogno? Un fremito di straniamento ci ha sorpreso allora, mentre eravamo in fila al supermercato con la mascherina chirurgica indosso o il bavero alzato. Livello 3. Con i tg che mostravano colonne di bare scortate dai militari, ospedali al collasso, pazienti intubati, quella complicazione semisconosciuta del virus chiamata polmonite interstiziale, abbiamo respirato lo sgomento. La paura della malattia e della morte. La paura folle di poter perdere le persone amate. Rientrando in casa, il semplice sospetto di essere stati contaminati, ci ha fatto tremare. Livello 4. “Andrà tutto bene”. Improvvisamente, una provvidenziale quanto irrazionale ventata di speranza ha ossigenato un Paese che rischiava di perire di asfissia domestica. E’ iniziata la breve era della musica a tutto volume in terrazzo, degli arcobaleni disegnati dai bambini con la bandiera italiana in bella mostra fuori dalle case. L’era dei cellulari puntati a tarda sera verso il cielo per gridare tutti insieme, al satellite lassù, il nostro esserci malgrado tutto. In una sorta di euforia catartica, abbiamo diffuso in rete scanzonati “meme”, il cui tema dominante era l’utilizzo improprio del cane domestico per poter uscire di casa senza incorrere in multe salate.
E’ iniziato il tentativo corale di resettare le nostre costruzioni sociali ed affettive. Mentre le conseguenze del virus, e della quarantena estesa, hanno messo a nudo, a detta di molti, le principali falle del sistema: sanità pubblica ottima dal punto di vista delle competenze, ma carente in quanto a strumentazione, numero di operatori, posti letto e fondi (specialmente in alcune regioni del Paese); precarietà del lavoro (specialmente per alcune categorie); crisi economica e povertà sempre in agguato; il diritto di informazione inquinato dalle fake news, lentezza della burocrazia. Disorientando ulteriormente i cittadini.
Dapprima, la componente psicologica del fenomeno è quasi passata in secondo piano. Dovunque si parlava incessantemente di mascherine, di guanti, di acqua e sapone e gel disinfettante per le mani, di moduli di autocertificazione da compilare, di contagi e decessi, di pazienti paucisintomatici, di indifesi animali pericolosamente “infetti”, ma non di psiche. Anche se, già lo scorso febbraio, il Ministero della Salute aveva pubblicato un documento dal titolo “Affrontare la salute mentale e gli aspetti psicosociali dell’epidemia di Covid-19” (elaborato dall’OMS, Organizzazione Mondiale della Sanità).
Quindi, sono intervenute in maniera formale le Istituzioni. Per risolvere, oltre che l’emergenza dell’epidemia, anche la questione della salute mentale. Del benessere psicofisico dei cittadini, dell’assistenza domiciliare da prestare a chi, magari anziano e dimenticato, restava in casa, abbandonato a se stesso.
L’interesse delle Autorità si è poi focalizzato sul disagio di chi ogni giorno lavora nelle strutture ospedaliere. L’11 aprile, infatti, l’INAIL (Istituto Nazionale Assicurazione Infortuni su Lavoro) ha stretto una collaborazione con il CNOP per la “prevenzione dello stress e la gestione del burnout”, considerato che gli operatori sanitari sono certamente “a maggior rischio di esposizione al virus e il loro impegno in prima linea nella gestione dell’emergenza sanitaria comporta un crescente sovraccarico operativo ed emotivo”. Nello stesso periodo, la psicologa Camussi, docente dell’Università “Bocconi” di Milano, è entrata a far parte del “Comitato di esperti in materia economica e sociale” nominato dal Presidente del Consiglio Conte. La cosiddetta task force che gestirà “la fase 2 dell’emergenza legata al Coronavirus”.
Infine, lo scorso 27 aprile, il Ministero della Salute ha istituito il numero verde nazionale di supporto psicologico.
Nel frattempo, le singole Asl hanno svolto un importante ruolo di supporto per arginare il problema, in particolar modo nelle regioni del Nord, dove la pandemia è esplosa con maggior virulenza e in anticipo rispetto al resto del Paese. Così come i singoli Comuni e la Caritas hanno istituito servizi e centri d’ascolto a distanza.
Oltre i sintomi pesano, però, i simboli. Le misure di contenimento dell’epidemia hanno modificato il significato intrinseco dei gesti più comuni: uscire (senza cane), stringere la mano, avvicinarsi all’altro. Chi un tempo passeggiava innocentemente in strada, nell’era del Coronavirus, si è trasformato agli occhi del mondo in un pericoloso contestatore o in uno sciocco irresponsabile. Le restrizioni e i controlli, finanche i droni che a intervalli regolari sorvolano i nostri cieli, hanno amplificato i comportamenti simil- paranoidi, alimentato le teorie del complotto, portato all’estremo il pensiero trasversale. Difficile, in un simile frangente, operare un corretto distinguo tra ipotesi plausibili, rischi reali e inquietanti e assunti totalmente strampalati.
La situazione è in continua evoluzione. A breve, archivieremo la fase 1 per inaugurare ufficialmente la fase 2 della pandemia. Le disposizioni che verranno adottate già le conosciamo, alcuni dettagli sono evidenti, altri sfumati, Come nel periodo precedente, si procederà per sospirate tappe, un pò a singhiozzo e un pò a tentoni.
La nostra psiche molto presto, tra pochissimi giorni, diciamo tra poche ore, daccapo si troverà a fronteggiare un labirinto di dubbi, incognite, scelte, aggiustamenti interiori, rimodulazioni affettive e sociali. E sarà chiamata a sostenere nuove pressioni, nuove prove, a ristrutturare ancora una volta gli assetti quotidiani. In sintesi, ognuno di noi sarà chiamato, come già accade. a trasformare gli effetti di una crisi collettiva in risorsa interiore e personale.
Nell’incerto futuro che ci attende, meglio non demonizzare la solitudine. Proprio qualche giorno fa, lo stimato sociologo Ferrarotti spiegava che: “Intesa correttamente, la solitudine non induce a chiudersi in sé stessi ma, al contrario, è la premessa necessaria all’incontro con l’altro”. Meglio non scansare il turbamento, meglio non soccombere alle emozioni. Piuttosto ci sarà di aiuto assegnare loro un profilo razionale, accogliendole, al tempo stesso, come un dono. Viverle. Perché “senza emozioni, è impossibile trasformare le tenebre in luce e l’apatia in movimento”: parola di C.G, Jung.
Dott.ssa Paola Caracciolo, Psicologa-Psicoterapeuta