Quel virus che resta nel liquido seminale per mesi: di quello dovremmo davvero avere paura

I virus delle febbri emorragiche sono stati trovati nel liquido seminale anche a diverse settimane dalla guarigione: rapporti sessuali e allattamento sono veicoli di Ebola
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L’epidemia di Coronavirus, divenuta pandemia nel giro di poco tempo, ci ha presi alla sprovvista. Ci ha spiazzati e ha messo in crisi anche i più esperti al mondo in materia di virus. Questo ha comportato errori, passi falsi, procedure sbagliate, come purtroppo è fisiologico che sia quando si affronta un pericolo che non si conosce. Ma ora, che questo nemico lo conosciamo un pochino meglio, sebbene non del tutto, sappiamo una cosa in più: non è di per sé mortale e soprattutto ad uccidere non è la polmonite che causa, bensì il rischio di incorrere in trombosi legate alla coagulazione del sangue. Ora che, a discapito purtroppo di migliaia di vite, i medici hanno compreso tutto questo, è certo – o almeno si spera – che in caso di seconda ondata epidemica si saprà meglio come affrontare la situazione e limitare al minimo il numero dei decessi.

Detto questo però, c’è un fatto che dovrebbe farci riflettere: il SARS-CoV-2 non è mortale. Il tasso di letalità più alto in Italia è stato probabilmente quello registrato al 24 marzo 2020, quando ha sfiorato il 10%, ma per il resto si è sempre mantenuto ben al di sotto di questa soglia limite. Questo dovrebbe, in parte, rincuorare gli ipocondriaci che da mesi hanno smesso di vivere per timore di un virus del quale aver paura non giova a nessuna, ma bisognerebbe conoscerlo, per affrontarlo con consapevolezza e intelligenza.

Eppure non sono nemmeno tanto lontani i tempi, o ancora oggi i luoghi, in cui un altro virus, ben più pericoloso, ben più assassino, ben più infido, metteva e mette in pericolo milioni di persone in tutto il mondo e l’Italia non era – e non è – esente: si tratta dell’Ebola, che in Occidente sembra essere meno letale, ma la percentuale è comunque alta, ovvero il 50% di possibilità di non sopravvivere. E chi non sopravvive riporta conseguenze spesso durature. Quando gli infettivologi erano stimati professionisti e non venivano trasformati in zimbelli dalle orde di imbecilli che popolano i social, rilasciavano interviste interessanti, illuminanti, allarmanti, che spesso però passavano inosservate. E’ il caso di Giuliano Rizzardini, infettivologo dell’Ospedale Sacco di Milano, intervistate da Chiara Palmerini per la rivista Focus.

L’epidemia che ho seguito indirettamente più da vicino – raccontava Rizzardini – è stata quella del 2000 in Nord Uganda, dove avevo lavorato all’inizio della mia carriera. La gestì un mio amico, il grande medico ugandese Matthew Lukwya. Si infettò e morì anche lui, a 42 anni, dopo essersi contagiato mentre assisteva uno dei suoi infermieri. Era di guardia da dieci giorni consecutivi e quella notte, per la stanchezza, si era dimenticato di indossare la protezione per gli occhi“.

I sintomi dell’Ebola? Inizialmente sono simili a quelli dell’influenza, “e comprendono febbre, mal di testa e dolori muscolari. I sanguinamenti iniziano nella settimana successiva – precisa l’esperto –. A volte sembra che ci sia un temporaneo miglioramento, che però purtroppo spesso è seguito da un peggioramento repentino. Si muore di solito a tre o quattro giorni dall’inizio delle emorragie”. Negli ospedali occidentali la possibilità di sopravvivere all’Ebola è maggiore, “da noi sono disponibili tutte le terapie di supporto e c’è la possibilità, inesistente in molti ospedali africani, di monitorare costantemente i malati”. Ma le conseguenze, per chi guarisce, sono comunque importanti: “La malattia è di per sé pesante a causa di uno stress importante dell’organismo. Per questo, la convalescenza può essere anche molto lunga. In buona sostanza, però, si muore o si guarisce e non c’è nessun esito specifico attribuibile direttamente ad Ebola. Molto comunque dipende da quali organi sono stati colpiti”, raccontava Rizzardini.

Ma è la contagiosità, o il modo di contagiarsi di Ebola, che dovrebbe farci riflettere oggi, alla luce del panico creato dall’epidemia di un virus che rispetto ad Ebola è un ‘pivello’.Si è considerati guariti a tre settimane dell’inizio della malattia – precisava l’infettivologo – e dopo, in teoria, non si è più contagiosi. Tutto quel che riguarda Ebola è però poco studiato: è infatti la prima volta che ci si trova di fronte a un’epidemia prolungata (ricordiamo che l’intervista risale al 2014, ndr), con un numero così alto di malati. Un documento del ministero della Salute – che non è specifico per Ebola, ma riguarda in generale i virus emorragici – consiglia come misura di precauzione che i pazienti guariti si astengano per tre mesi dai rapporti sessuali non protetti. I virus di Ebola e altri febbri emorragiche sono infatti stati trovati nel liquido seminale anche a diverse settimane dalla guarigione. Anche l’allattamento andrebbe evitato – conclude l’esperto -: c’è infatti il forte sospetto che il latte possa trasmettere la malattia”.

Nel 2014, dunque, di Ebola si sapeva ancora poco ma era maledettamente mortale. Oggi si sa qualcosa in più, ma resta comunque uno dei virus più letali. Ciò che non significa che il Coronavirus vada sottovalutato, ma vista la sua bassa letalità forse sarebbe il caso di ridimensionare le nostre fobie da opulenti e viziati occidentali, perché di morti ce ne sono stati tanti solo a causa dei nostri errori, e le evidenze scientifiche in merito parlano chiaro. Impariamo a conoscere il Covid-19 e non dovremo più temerlo.

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