Qualche mese fa, i commenti di Donald Trump ad uno studio americano, che ne indicava gli effetti contro il coronavirus, avevano portato sotto la lente d’ingrandimento (con tanto di polemiche annesse) l’importanza di caldo e luce solare nella lotta alla pandemia. Un altro studio recente aveva dimostrato che livelli UVB rappresentativi della luce solare naturale inattivano rapidamente SARS-CoV-2 sulle superfici. Tra gli esperti nostrani, anche Giulio Tarro, virologo di fama internazionale, aveva, già molti mesi fa, spiegato come il sole sia il miglior antivirale e come il caldo avrebbe abbattuto il contagio. Ora un nuovo studio condotto da un team di esperti tutto italiano ha approfondito ulteriormente l’argomento, aggiungendo nuove importanti conclusioni nella lotta al SARS-CoV-2. Potremmo riassumere lo studio in questa frase: i raggi ultravioletti possono uccidere il nuovo coronavirus anche in pochi secondi.
Il team italiano è composto da medici e astrofisici che fanno parte dell’Università degli Studi di Milano (dipartimento “Luigi Sacco”), dell’Istituto nazionale di astrofisica (INAF) e dell’Istituto nazionale dei tumori. Gli esperti hanno scoperto che la luce ultravioletta a lunghezza d’onda corta, o radiazione UV-C, quella tipicamente prodotta da lampade a basso costo al mercurio, ma anche i raggi ultravioletti del sole, hanno un’ottima efficacia nel neutralizzare il coronavirus SARS-COV-2.
“La radiazione ultravioletta, in particolare UV-C, è uno degli approcci più affidabili e ampiamente accettati” tra le tecnologie di disinfezione senza contatto, scrivono i ricercatori nel loro studio, pubblicato in preprint su Medrxiv. Per quanto spesso questa tecnologia venga richiamata pubblicamente a livello internazionale anche per la lotta alla diffusione della pandemia COVID-19, una misura diretta della dose di raggi UV necessaria per rendere innocuo il virus non era stata ancora effettuata e finora erano state considerate dosi con valori tra loro molto contraddittori, derivati da altri lavori scientifici riguardanti precedenti esperimenti su altri virus. Nuove precise indicazioni in questo senso arrivano dallo studio italiano.
“L’interazione delle radiazioni UV-C con i virus è stata ampiamente studiata e il meccanismo più comune consiste nell’assorbimento diretto del fotone UV-C dalle basi degli acidi nucleici e/o dalle proteine del capside che porta alla generazione di fotoprodotti che disattivano il virus”. Nello studio, gli autori dimostrano che “sia la inattivazione che l’inibizione del virus sono facilmente raggiunte”. “Gli esperimenti sono stati condotti utilizzando un sistema di lampade al mercurio a bassa pressione, calibrato per fornire un’intensità media di 1.082mW/cm² sull’area di illuminazione. Al SARS-CoV-2, sono stati somministrati 3 diversi tempi di esposizione all’illuminazione, corrispondenti a 3.7, 16.9 e 84.4mJ/cm² ad una Molteplicità di infezione (MOI, rapporto tra numero di agenti infettanti (batteri, virus) e numero di cellule infettate, ndr) di 0.05, 5, 1000. La prima concentrazione è equivalente alla contaminazione a basso livello osservata in ambienti chiusi (per esempio, stanze di ospedale), la seconda corrisponde alla concentrazione media trovata nell’espettorato di pazienti COVID-19 e la terza è una concentrazione molto grande, che corrisponde a quella osservata in pazienti COVID-19 malati terminali”, spiegano i ricercatori nel loro studio.
“L’effetto dell’esposizione agli UV-C è stata estremamente evidente indipendentemente dalla MOI impiegata. Non è stato possibile osservare la replicazione virale per le prime 48 ore alla concentrazione più bassa (0.05 MOI) sia nei campioni irradiati che in quelli non trattati. Tuttavia, 6 giorni dopo l’infezione, la replicazione virale era chiaramente evidente nella condizione di non esposizione agli UV-C, ma era completamente inibita dopo l’irradiazione UV-C anche a 3.7mJ/cm². Alla concentrazione virale intermedia (5 MOI), è stata osservata un’efficace riduzione del numero di copie a partire dalla dose di 3.7mJ/cm² con una riduzione di un fattore di 2000 dopo 24 ore. Quel che è ancora più importante è che il valore del numero di copie non è aumentato nel tempo, suggerendo una disattivazione efficace del virus. Le dosi più alte di UV-C hanno seguito la stessa tendenza”, si legge nello studio.
“In conclusione, la radiazione UV-C inibisce il SARS-CoV-2 e la risposta dipende sia dalla dose UV-C che dalla concentrazione virale. Infatti, per concentrazioni virali tipiche di ambienti chiusi contaminati a basso livello e dell’espettorato di pazienti COVID-19, una dose molto piccola inferiore a 4mJ/cm² era sufficiente a raggiungere la completa inattivazione del virus. Anche alla concentrazione virale maggiore (1000 MOI), la replicazione virale è stata totalmente disattivata ad una dose >16.9mJ/cm². Questi risultati sono estremamente importanti perché consentono lo sviluppo di efficaci metodi di disinfezione basati sugli UV per contenere l’infezione da SARS-CoV-2”, concludono i ricercatori nel loro studio.
“Abbiamo illuminato con luce UV soluzioni a diverse concentrazioni di virus, dopo una calibrazione molto attenta effettuata con i colleghi di INAF e INT”, dice Mara Biasin, Docente di Biologia Applicata dell’Università Statale di Milano “e abbiamo trovato che è sufficiente una dose molto piccola – 3.7 mJ/cm² , cioè equivalente a quella erogata per qualche secondo da una lampada UV-C posta a qualche centimetro dal bersaglio – per inattivare e inibire la riproduzione del virus di un fattore 1000, indipendentemente dalla sua concentrazione“. Andrea Bianco, Tecnologo INAF aggiunge: “Con dosi così piccole è possibile attuare un‘efficace strategia di disinfezione contro il coronavirus. Questo dato sarà utile a imprenditori e operatori pubblici per sviluppare sistemi e attuare protocolli ad hoc utili a contrastare lo sviluppo della pandemia“.
Questi risultati sono stati molto importanti anche al fine di validare uno studio parallelo, coordinato da INAF e Università degli Studi di Milano, per comprendere come gli ultravioletti prodotti dal sole, al variare delle stagioni possano incidere sulla pandemia, inattivando in ambienti aperti il virus presente in aerosol, contenuto ad esempio nelle piccolissime bollicine prodotte dalle persone quando si parla o, peggio, con tosse e starnuti. In questo caso ad agire non sono i raggi ultravioletti corti UV-C (anch’essi prodotti dal sole, ma assorbiti dallo strato di ozono della nostra atmosfera) bensì i raggi UV-B e UV-A, con lunghezza d’onda tra circa 290 e 400 nanometri, quindi maggiore degli UV-C.
In estate, in particolare nelle ore intorno a mezzogiorno, bastano pochi minuti perché la luce ultravioletta del sole riesca a rendere inefficace il virus, come dimostrato da una recente misura in luce UV-A e UV-B dal Laboratorio di Biodifesa del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti. Fabrizio Nicastro, ricercatore INAF commenta: “Il nostro studio sembra spiegare molto bene come la pandemia COVID-19 si sia sviluppata con più potenza nell’emisfero nord della Terra durante i primi mesi dell’anno e ora stia spostando il proprio picco nei Paesi dell’emisfero sud, dove sta già iniziando l‘inverno, attenuandosi invece nell’emisfero nord”.
I raggi ultravioletti efficaci contro il Coronavirus: parla il Prof. Clerici
Sullo studio che ha portato a definire l’efficacia dei raggi ultravioletti contro SARS-Cov-2, Mario Clerici, primo firmatario dei lavori, professore ordinario di Immunologia all’Università di Milano e direttore scientifico della Fondazione Don Gnocchi, sulle pagine del Corriere spiega: “Dapprima abbiamo utilizzato delle lampade a raggi UV di tipo C, quelli che non arrivano sulla Terra perché bloccati dall’atmosfera. Per capirsi, sono simili ai dispositivi usati per purificare gli acquari. Nell’esperimento sono state posizionate sotto le lampade gocce di liquido di diverse dimensioni (droplet) contenenti SARS-CoV-2, per simulare ciò che può essere emesso parlando o con uno starnuto. Abbiamo valutato una dose bassa di virus (quella che può esserci in una stanza dove è presente un positivo), una dose cento volte più alta (che si può trovare in un soggetto con forma grave di Covid-19) e una quantità mille volte più alta, impossibile da trovare in un essere umano o in una qualunque situazione reale. In tutti tre i casi, la carica virale è stata inattivata in pochi secondi al 99,9% da una piccola quantità di raggi UV-C: ne bastano 2 millijoule per centimetro quadrato”.
Lo stesso esperimento è stato condotto con i raggi UVA e UVB, ovvero quelli che arrivano sulla superficie terrestre. “I risultati sono molto simili, ma li stiamo sistemando e quindi non sono ancora disponibili per la comunità scientifica. Partendo da questi dati ci siamo poi chiesti se ci fosse una correlazione tra irraggiamento solare ed epidemiologia di COVID-19. Il lavoro degli astrofisici è stato raccogliere dati sulla quantità di raggi solari in 260 Paesi, dal 15 gennaio a fine maggio. La corrispondenza con l’andamento dell’epidemia di SARS-CoV-2 è risultata quasi perfetta: minore è la quantità di UVA e UVB, maggiore è il numero di infezioni. Questo potrebbe spiegarci perché in Italia, ora che è estate, abbiamo pochi casi e con pochi sintomi, mentre alcuni Paesi nell’altro emisfero — come quelli del Sud America, in cui è inverno — stanno affrontando il picco. Un caso a sé stante è rappresentato da Bangladesh, India e Pakistan dove, nonostante il clima caldo, le nuvole dei monsoni bloccano i raggi solari e quindi l’epidemia è in espansione. Sottolineo che, nell’analisi dei colleghi astrofisici, sono state prese in considerazione anche altre variabili, come l’uso della mascherina e il distanziamento interpersonale”, ha spiegato Clerici.
“I nostri esperimenti portano ad affermare, senza dubbio” che possiamo stare tranquilli in spiaggia, senza mascherina. “Le goccioline che possono essere emesse da un eventuale soggetto positivo vengono colpite dai raggi solari e la carica virale è disattivata in pochi secondi. Il discorso potrebbe valere anche per superfici di ogni genere”, aggiunge Clerici.
Sulla possibilità di utilizzare lampade a raggi UV per disinfettare i luoghi chiusi, Clerici afferma: “Assolutamente sì, la quantità di raggi emanati dai dispositivi potrebbe disinfettare completamente ambienti chiusi, con quantità minime di UV e in tempi brevi. Potrebbero essere utilizzate nei cinema, negozi, uffici e anche nelle scuole”. Il Ministero della Salute ha sottolineato che le lampade a raggi UV “non vanno usate per disinfettare le mani o altre aree della pelle, perché possono causare irritazioni e danneggiare gli occhi”. E Clerici aggiunge: “Per ora l’utilizzo di lampade è suggerito per la disinfezione di ambienti e oggetti (sono già presenti negli aeroporti). La luce solare è un’altra cosa. Le lampade che abbiamo attualmente a disposizione, sfruttando i nostri dati, possono già essere usate per eliminare il virus da ambienti chiusi. Per esempio, per disinfettare le aule in breve tempo, prima dell’ingresso degli studenti, stiamo cercando di progettare lampade con lunghezze d’onda che eliminino qualunque tipo di potenziale tossicità per l’uomo”.
Per evidenziare la novità introdotta dal loro studio, Clerici spiega: “È la prima volta che ne viene valutato l’effetto su SARS-CoV-2. Il virus che abbiamo utilizzato negli esperimenti ci è stato fornito dall’Istituto Spallanzani di Roma: si tratta di germi altamente patogeni, tratti da campioni biologici di pazienti. Un terzo studio lo abbiamo poi dedicato al rapporto tra quantità di raggi solari e influenza stagionale, analizzando un arco temporale di un secolo. L’influenza scompare con l’arrivo della stagione calda, per ricomparire poi da ottobre a marzo. E ciò non è dovuto alla comparsa di immunità di gregge, in modo molto simile a quanto stiamo osservando con Sars-CoV-2”.
Una seconda ondata di COVID-19 per Clerici è possibile “ma ridotta perché il virus sarà indebolito. Il virus che vediamo oggi è lo stesso di febbraio e marzo, non ha subito mutazioni nel suo genoma, se non minime. Dunque è sempre “cattivo”. La differenza è che i raggi solari lo inattivano, rendendo molto più difficile la trasmissione da un soggetto all’altro e anche la replicazione all’interno di un organismo. SARS-CoV-2, come tutti i virus, si adatterà all’uomo ma oggi, in Italia, il rallentamento dell’epidemia è dovuto principalmente a motivi ambientali”.
Il documento dell’Istituto Superiore di Sanità
Anche un rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) del 15 maggio parla di efficacia delle radiazioni UV contro diversi virus. Il documento “Raccomandazioni ad interim sulla sanificazione di strutture non sanitarie nell’attuale emergenza Covid-19: superfici, ambienti interni e abbigliamento” riporta: “La radiazione UV-C ha la capacità di modificare il DNA o l’RNA dei microorganismi, impedendo loro di riprodursi e quindi di essere dannosi. Studi in vitro hanno dimostrato chiaramente che la luce UV-C è in grado di inattivare il 99,99% del virus dell’influenza in aerosol. L’applicazione a goccioline (droplet) contenenti Mers ha comportato livelli non rilevabili del virus dopo soli 5 minuti di esposizione. Se però le superfici sono esposte a una radiazione UV non sufficientemente intensa, ciò potrebbe comportare una disinfezione inadeguata e conseguenti problemi di sicurezza. La radiazione UV-C può essere utilizzata in sicurezza per disinfettare le superfici o gli oggetti in un ambiente chiuso. Basta un contenitore di plexiglas o vetro per schermare efficacemente la radiazione e proteggere le persone. Viceversa, i sistemi tradizionali con lampade UV-C installate a parete o a soffitto, che generano luce in assenza di protezione, rappresentano un potenziale pericolo: la radiazione nell’intervallo 180nm-280nm è in grado di produrre gravi danni a occhi e cute ed è un cancerogeno certo per l’uomo. Studi recenti hanno evidenziato che esistono specifiche lunghezze d’onda in grado di inattivare efficacemente patogeni batterici e virali senza provocare citotossicità o mutagenicità alle cellule umane”.