Le perforazioni dei Campi Flegrei e la geotermia: una straordinaria opportunità per la Campania

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di Stefano Carlino – Nelle scorse settimane si è riaperto il dibattito sul problema delle perforazioni geotermiche nelle aree vulcaniche attive e della loro pericolosità in relazione a possibili interferenze con i processi vulcanici. Questo è avvenuto a causa delle emissioni di gas e vapore da un pozzo realizzato nell’ambito di un progetto sperimentale localizzato nella caldera dei Campi Flegrei che prevede l’utilizzo del calore geotermico per la piccola produzione di energia elettrica.

Per avere un quadro sufficientemente esaustivo su questa problematica è necessario innanzitutto ripercorrere la storia delle perforazioni geotermiche effettuate in tempi storici nel distretto vulcanico attivo della Campania (Campi FlegreiIschia e Vesuvio), ricordando che la ricerca geotermica nasce ufficialmente in Italia agli inizi del Novecento. Vedremo inoltre come, in tempi più recenti, la ricerca scientifica in campo vulcanologico abbia fatto tesoro delle moderne tecniche di perforazione profonde, utilizzandole come strumento diretto di indagine delle strutture vulcaniche, delle proprietà fisiche delle rocce e di misura dello stress in esse accumulato.

Già verso gli inizi del 1800, in Italia si indagava sulla possibilità di utilizzare il calore delle Terra per la produzione di energia elettrica, idea che sarà messa in pratica dopo la Rivoluzione Industriale. Nel 1904, il Principe Piero Ginori-Conti riuscì a trasformare l’energia termica del vapore in energia elettrica accendendo alcune lampadine, utilizzando un motore alternativo da un cavallo accoppiato a una dinamo. Pochi anni dopo furono eseguiti i primi pozzi geotermici nel distretto di Larderello (Pisa, Toscana), usufruendo del vapore naturale ad alta temperatura per produrre energia elettrica.

Con il perfezionamento delle tecniche di perforazione, i campi di pozzi furono estesi a tutta la regione boracifera. Attualmente il distretto di Larderello è l’unica zona d’Italia dove si produce e si utilizza energia geotermica nel campo dell’alta entalpia, con una potenza elettrica di oltre 800 MW (Mega Watt).

Dopo i successi ottenuti a Larderello, le indagini per la ricerca di fonti geotermiche si focalizzarono nel distretto vulcanico dei Campi Flegrei, in Campania. In quest’area, i serbatoi magmatici che avevano alimentato il vulcanismo in passato avrebbero potuto fornire calore sufficiente a sviluppare sistemi geotermali relativamente poco profondi (1-3 km) e ad alta temperatura. Questa possibilità venne indagata tra il 1939 e il 1943, con le prime perforazioni geotermiche nella caldera flegrea e nell’Isola d’Ischia, eseguite dalla società SAFEN. Le ricerche proseguirono negli anni a venire, in seguito alla joint venture tra la società AGIP e l’ENEL, in particolare nei Campi Flegrei, dove nel 1977 si diede inizio a nuove campagne di perforazioni, che si spinsero fino a circa 3 km di profondità (Figura 1).

Figura 1. Principali perforazioni geotermiche eseguite nella caldera dei Campi Flegrei dal 1939 al 1984. I punti bianchi indicano i pozzi con profondità minore di 200 metri, quelli rossi con profondità maggiore di 200 metri (MF: Mofete, SV: San Vito, CF23 Campi Flegrei Agnano, L: Licola). La linea tratteggiata indica il limite della caldera

Le prime perforazioni nella caldera dei Campi Flegrei raggiunsero profondità di alcune centinaia di metri, e furono eseguite per indagare preliminarmente il campo termico più superficiale (pozzi pilota). Un esempio è la perforazione eseguita nel 1940 all’interno del cratere di Monte Nuovo. Trattandosi dell’ultima attività eruttiva dei Campi Flegrei, avvenuta nel 1538, gli esperti ritennero che il piccolo bacino magmatico che aveva alimentato l’eruzione potesse avere ancora una quantità di calore latente sufficiente per la produzione di vapore ad alta temperatura. La perforazione, che durò poco più di cinque mesi, eseguita con una sonda a percussione, raggiunse una profondità di 677 metri, ma le temperature massime registrate (circa +78°C) si mostrarono significativamente più basse di quelle attese. Le indagini furono, poi, temporaneamente sospese a causa degli eventi bellici a partire dal settembre del 1943.

Nel periodo post bellico proseguirono le perforazioni più profonde, nel settore a ovest di Baia (località Mofete) e ad Agnano. Si riscontrarono buone potenzialità geotermiche, in particolare a Baia, con la presenza di sistemi geotermali ad acqua dominante con temperature di circa +200°C, rinvenute tra 1 e 2 chilometri di profondità. Le massime temperature, intorno ai +300°C, furono misurate negli acquiferi geotermali più profondi, localizzati a circa 2.700 metri. L’emungimento dei pozzi mostrò, tuttavia, la presenza di fluidi con elevato grado di salinità, una caratteristica che determinava problemi tecnici agli impianti (incrostazione e ostruzione dei tubi) durante la loro estrazione, con una conseguente diminuzione significativa del fluido emunto.

Ciononostante, le elevate temperature rinvenute a basse profondità nella zona di Mofete determinarono entusiasmo negli operatori del settore cosicché nel 1977, con la joint-venture AGIP-ENEL, ripartirono nuove campagne di perforazioni profonde (Figura 2), che furono attive anche durante la crisi del bradisismo del 1982-84 a Pozzuoli, fino alla fine del 1985.

Figura 2. Emissioni di vapore durante le prove di produzione del pozzo in località Mofete (Baia-Campi Flegrei) (da Penta e Conforto, 1949)

Con esse si prefissarono due obiettivi principali: il primo, confermare la possibilità di utilizzo dei fluidi ad alta temperatura, attraverso un sistema di produzione-reiniezione; il secondo, misurare le variazioni del sistema geotermale in profondità (pressioni, livelli di falda e portate) generate dalla presenza di un campo di pozzi. In questo caso, trattandosi di perforazioni più profonde rispetto alla prima campagna, e in considerazione dell’alta densità abitativa dell’area, furono adottate maggiori precauzioni nelle operazioni di scavo, con il monitoraggio della microsismicità, delle emissioni acustiche e della diffusione dei gas in atmosfera.

Le ricerche furono estese all’area di San Vito, poco a nord della città di Pozzuoli, e a Licola (poco al di fuori del limite nord-occidentale della caldera) per verificare l’estensione areale dell’anomalia termica osservata a Mofete. Tra le zone di Mofete e San Vito furono eseguiti 7 pozzi geotermici con profondità variabili da 800 a circa 3.000 metri. Alcuni di questi pozzi furono deviati durante lo scavo (pozzi obliqui), per tentare di intercettare possibili zone fratturate o di faglia da cui ottenere una maggiore produzione. Questa tecnica, oggi ampiamente utilizzata, consentiva anche di contenere l’estensione del campo pozzi, in un’area molto urbanizzata.

Le caratteristiche dei pozzi e delle formazioni geologiche produttive vennero accertate sia attraverso prove di produzione brevi (2-3 giorni) che con prove di lunga durata (3-4 mesi). Nel primo caso i fluidi venivano decantati in apposite vasche e successivamente smaltiti, mentre nel secondo caso fu necessario ricorrere ad un pozzo per la reiniezione dell’acqua, utilizzato anche per lo studio del comportamento del sistema geotermale. Alla fine delle indagini fu valutato che il campo di Mofete poteva fornire una potenza elettrica minima di 10 MW.

Anche l’Isola d’Ischia fu oggetto di indagini geotermiche, in un’epoca in cui proliferava l’utilizzo delle sue acque termali, i cui benefici per la salute erano già ben noti grazie agli studi di Giulio Iasolino (De’ rimedi naturali che sono nell’isola di Pithecusa, hoggi detta Ischia) pubblicati nel 1588.

La prima serie di pozzi pilota (circa 80 perforazioni) per la ricerca di risorse geotermiche fu realizzata dal 1939 al 1943, nel settore occidentale e meridionale dell’isola, tra Cetara (Forio) ed i Maronti (Serrara Fontana) e nel settore settentrionale in località Monte Tabor (Casamicciola). Dal 1951 al 1954 la società SAFEN eseguì altre 6 perforazioni, di cui solo 4 superavano i 100 metri di profondità.

Le elevate potenzialità del campo geotermico ischitano stimolarono le attività di perforazione; la società SAFEN eseguì alcuni pozzi profondi, che raggiunsero il chilometro di profondità, nel settore occidentale dell’isola (Figura 3). Le perforazioni consentirono di individuare l’andamento delle temperature in profondità, caratterizzando più in dettaglio il sistema geotermale di Ischia. Furono raggiunte temperature massime di +225°C a 1.151 metri di profondità.

Figura 3. Principali perforazioni geotermiche eseguite nell’isola d’Ischia dal 1939. I punti bianchi indicano i pozzi con profondità minore di 200 metri, quelli rossi con profondità maggiore di 200 metri

I dati derivanti dalle perforazioni evidenziarono che una parte della produzione potenziale di energia geotermica a Ischia è legata a sistemi a vapore dominante. Va, inoltre, ricordato che un tentativo di utilizzazione della risorsa di calore a Ischia fu iniziato nel 1950, in seguito all’installazione di una centrale geotermica a ciclo binario da 300 kW nel comune di Forio, una delle prime sperimentate in Europa. Dopo un breve ciclo di produzione l’impresa venne abbandonata, sembrerebbe, a causa dei problemi di incrostazione e corrosione dei pozzi dovuti alla elevata salinità dei fluidi, una complicazione che le tecnologie vetuste dell’epoca non riuscirono a superare.

In tempi successivi, nell’ambito del Progetto Finalizzato Energetica, fu progettato un impianto pilota geotermoelettrico da 500 kW, che avrebbe utilizzato fluidi a temperatura di circa +150°C.  In questo caso il progetto non partì mai, probabilmente per lo scarso interesse delle comunità locali, preoccupate anche della possibile incidenza negativa dell’impianto geotermico sulle attività turistiche e termali dell’isola.

Nelle fasi finali delle ricerche geotermiche in Campania, l’AGIP richiese un nuovo permesso di ricerca per l’area del Vesuvio. Anche in questo caso l’obiettivo delle ricerche era quello di verificare se, e in quali condizioni fisiche, i fluidi ad alta entalpia (con temperature > +150°C), derivanti da serbatoi localizzati in aree vulcaniche attive, potevano essere utilizzati ai fini della produzione e commercializzazione di energia. A tale scopo, nell’ambito della Joint venture AGIP-ENEL, fu eseguito il pozzo di Trecase, pochi chilometri a sud-est del cratere del Vesuvio, iniziato il 19 novembre del 1980 e concluso il 13 marzo del 1981, quando fu raggiunta una profondità di 2.072 metri. Tuttavia, il Vesuvio si mostrò un vulcano “freddo” poiché furono rinvenute temperature molto basse, con un gradiente poco inferiore a +30°C/km, simile al gradiente medio della Terra.

Alla fine del periodo di esplorazione geotermica nel distretto dei vulcani attivi campani, i problemi tecnici rilevati nell’estrazione di fluidi altamente salini, le basse portate dei fluidi misurate in alcuni pozzi e le scelte politiche energetiche coeve determinarono l’abbandono del piano di produzione di energia elettrica da fonti geotermiche in Campania. Le scelte politiche, che probabilmente furono determinanti nel rinunciare all’impresa, furono conseguenti alla nazionalizzazione dell’ENEL, avvenuta nel 1963, e alla diminuzione del prezzo del petrolio dopo la crisi del Kippur del 1973.

Vanno fatte alcune considerazioni importanti sui risultati e gli esiti tecnici ottenuti dalla campagna esplorativa. In primo luogo, i risultati dei carotaggi profondi e le misure dei gradienti di temperatura (la variazione di temperatura con la profondità) contribuirono in modo significativo ad accrescere la conoscenza della struttura e della dinamica dei vulcani campani. Ad esempio, le perforazioni a Ischia e le carote di Tufo Verde campionate ne corso degli scavi furono di supporto agli studi di Alfred Rittmann (1930) per definire la struttura vulcano-tettonica del Monte Epomeo (all’epoca ancora ritenuto da alcuni esperti come un vulcano), mentre la misura delle temperature sia a Ischia che nei Campi Flegrei sono state utili a definire le profondità alle quali le rocce cominciano a comportarsi in modo duttile e ipotizzare la profondità dei bacini magmatici, anche con l’aiuto dei moderni software di modellazione fisica dei processi termodinamici.

La perforazione del pozzo di Trecase, al Vesuvio, rilevò per la prima volta la presenza del basamento carbonatico (lo stesso che forma la struttura montuosa circostante, Appennino e Penisola Sorrentina) sotto il distretto vulcanico campano, a una profondità di circa 2 chilometri, e fu anche indispensabile per datare l’inizio dell’attività vulcanica del Vesuvio.

Probabilmente, i risultati delle esplorazioni geotermiche in Campania sono stati più proficui per la ricerca vulcanologica che non per le applicazioni di tipo industriale, ma hanno anche mostrato che esiste la possibilità di utilizzare fonti di energia geotermica, usufruendo delle odierne tecnologie, più avanzate rispetto al secolo scorso, come quelle degli impianti a ciclo binario e a reiniezione totale dei fluidi.

Tuttavia, le esperienze e i dati acquisiti nel corso delle esplorazioni geotermiche dei vulcani campani non forniscono un quadro esaustivo per valutare le interferenze che l’emungimento e la reiniezione di fluidi ad alta entalpia avrebbe determinato/potrebbero determinare sul sistema geotermale più profondo. Va comunque sottolineato che la campagna di perforazioni eseguite in particolare nei Campi Flegrei, e proseguite anche durante la fase di bradisismo del 1982-84, non destò particolari preoccupazioni, né tra gli addetti ai lavori e nemmeno nella popolazione residente.

Il problema della pericolosità vulcanica indotta dall’operatività degli impianti geotermici viene, oggi, tipicamente valutata in una fase preliminare, con lo studio dettagliato dell’area di interesse e con l’ausilio delle indagini geofisiche e geochimiche. I modelli numerici al computer simulano, poi, le variazioni termodinamiche del sistema geotermale che scaturirebbero a seguito dell’estrazione e reiniezione dei fluidi. Tuttavia, specie in assenza di un quadro conoscitivo geologico sufficientemente dettagliato, l’esperienza sul campo continuerà ad avere un ruolo chiave nella valutazione dei rischi e della sostenibilità degli impianti geotermici, e solo la fase di perforazione e di prove dei pozzi potrà realmente definire in che modo il sistema geotermale risponderà all’esercizio di un impianto geotermico.

L’esperienza degli ultimi 30 anni in questo campo, ha mostrato che la geotermia può essere applicata, con rischi accettabili, anche nei vulcani attivi, come comprovato dagli innumerevoli progetti portati avanti da paesi come l’Islanda, leader nella sperimentazione e nell’utilizzo di impianti geotermici ad alta e media entalpia (vedi ad esempio: https://geothermal.org/PDFs/Articles/09JulyAugust31.pdf). Inoltre, le applicazioni nel campo della media e bassa entalpia con l’utilizzo di tecnologie che non prevedono l’estrazione del fluido per la piccola produzione di energia elettrica, minimizzano le perturbazioni indotte sul sistema geotermale.

Va, infine, ricordato che l’avanzamento delle tecniche di perforazione, e i dati diretti da esse forniti, hanno spinto vulcanologi e sismologi a utilizzare questa metodologia d’indagine per accrescere le conoscenze scientifiche nei rispettivi campi (per info e approfondimenti: https://www.icdp-online.org/home/). Proprio nella caldera dei Campi Flegrei, alla fine del 2012 si concludeva la fase di perforazione scientifica di un pozzo pilota (Campi Flegrei Deep Drilling Project), profondo 500 metri, che ha fornito alcuni elementi di novità su cui riflettere rispetto ai meccanismi delle eruzioni che hanno generato la caldera stessa (Figura 4). Perforazioni scientifiche profonde sono state eseguite in diversi vulcani (alle Hawaii, in Giappone e Islanda) e hanno contribuito a definirne meglio la loro struttura e dinamica.

Figura 4. Perforazione del pozzo pilota nel corso del Campi Flegrei Deep Drilling Project, nel dicembre 2012 (Foto: Claudio Serio)

In conclusione, la storia delle ricerche geotermiche nei Campi Flegrei ci ha mostrato che gli elementi a discapito dell’utilizzo del calore (per produrre energia elettrica) in questa caldera attiva derivano per lo più da problemi di carattere tecnologico (come l’abbattimento della salinità dei fluidi altamente corrosivi e la reiniezione dei gas incondensabili) piuttosto che dal reale pericolo di innescare una reazione a catena che generi addirittura un’eruzione. Con tutte le cautele del caso, la geotermia in Campania potrebbe diventare un settore di rilancio dell’economia, ma può essere anche un elemento trainante per la ricerca scientifica applicata ai vulcani attivi. Se scienza e industria lavoreranno giudiziosamente in questa direzione si potranno ottenere buoni frutti e abbattere i rischi connessi a questa attività.

Letture di approfondimento

Carlino, S. (2018). Neapolitan Volcanoes: A Trip Around Vesuvius, Campi Flegrei and Ischia. Springer.

Carlino, S., Somma, R., Troise, C., & De Natale, G. (2012). The geothermal exploration of Campanian volcanoes: Historical review and future development. Renewable and Sustainable Energy Reviews16(1), 1004-1030.

Manzella A., Ungarelli C. (2001). La geotermia. L’energia sotto i nostri piedi. Il Mulino Ed.

Sommaruga, C. (2010). Primati Italiani nello Sfruttamento di Risorse Geotermiche di Media e bassa Temperatura. particolare: Pompe di Calore, Cicli Binari, Impianti a Vapore di Flash (1930-1960). Documento disponible en: http://www.pionierieni.it/wp/wp-content/uploads/La-Geotermia-in-Italia-dal-1940-ad-oggi.-Di-Cludio-Sommaruga..pdf.

Perforazione dei Campi Flegrei: l’importanza scientifica e sociale del progetto, intervista a Stefano Carlino

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