I Bronzi di Riace, esposti presso il Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria, sono la massima espressione della scultura bronzea dell’antico occidente ellenico.
Era il 16 agosto 1972, quando a 300 metri dalla spiaggia di Riace, sulla costa jonica reggina, il sub dilettante Stefano Mariottini, concentrò la sua attenzione sul braccio sinistro della statua A, raffigurante un guerriero più giovane, convinto che si trattasse di un cadavere emergente dalla sabbia del fondale marino. Il 21 agosto venne recuperata la statua B, raffigurante il guerriero più anziano.
Per sollevare e recuperare i due capolavori, i carabinieri del nucleo sommozzatori utilizzarono un pallone gonfiato con l’aria delle bombole. L’eccezionalità del ritrovamento fu subito chiara dato che poche statue originali ci sono giunte dalla Grecia.
Le statue A e B, ribattezzate “Il giovane” e “L’adulto”, colpiscono per i ricci perfettamente definiti, le ciglia e i denti che emergono dalle labbra appena schiuse, gli occhi calcite e le iridi perse nei secoli.
I Bronzi di Riace, non gemelli, non opera della stessa mano, sono stati protagonisti di numerose speculazioni nel corso dei decenni: gli studiosi hanno formulato ipotesi su autori, personaggi raffigurati, l’epoca e luogo di provenienza e di realizzazione.
I bronzi di Riace erano 5 ed erano biondi
L’ipotesi trova fondamento nelle fonti letterarie e iconografiche, e ora anche negli ultimi risultati delle indagini su patine e argilla. Castrizio studia i Bronzi da oltre 20 anni e collabora con i Carabinieri del Nucleo Tutela del Patrimonio nelle indagini sulla presunta sparizione di elmi, scudi, lance e di altre statue del carico di Riace.
L’archeologo ha illustrato la sua ipotesi, anticipando all’AGI anche i sorprendenti risultati che saranno resi noti a settembre con la pubblicazione degli atti del primo convegno internazionale su “I bronzi di Riace e la bronzistica di V a.C.“, organizzato dal Dipartimento di Civiltà Antiche e Moderne dell’Università di Messina nel 2018.
“I Bronzi di Riace erano biondi e dorati e furono realizzati ad Argos, nel Peloponneso greco, entrambi nella metà del V secolo, a poca distanza temporale l’uno dall’altro, nella stessa bottega ma da maestranze diverse. Si è capito che B corregge gli errori di A, che rimane comunque la statua più perfetta nella tecnica di fusione del bronzo tra quelle arrivate sino a noi dall’antichità“, ha spiegato Castrizio illustrando le analisi su patine e argille.
“B corregge A – prosegue Castrizio – per esempio, in A l’elmo era fissato con una barra di ferro, mentre in B i maestri hanno capito che conveniva deformare la scatola cranica. Sulla spalla di B, inoltre, c’è un gancio assente in A e che serviva per fissare con un altro punto l’attacco dello scudo che forse in A si era visto creare un effetto vela a causa del vento“.
“Mentre A era modellato tutto a mano, pensiamo al lavoro ‘folle’ di realizzare i riccioli dei capelli singolarmente, in B, per simulare le costole, i maestri inserirono nel modello dei salsicciotti d’argilla“.
I bronzi in origine erano a colori, Castrizio spiega: “Assodato che labbra e capezzoli erano di rame per imitarne il colore naturale e i denti d’argento, alcune novità riguardano gli occhi di calcite, un quarzo trasparente e lucido, con dentro del vetro rimasto solo nella statua B. Il colore degli occhi dei bronzi era ambrato. Perché? Perché questo era il colore degli occhi dei leoni. Si è inoltre scoperto che i bronzi sono le uniche statue al mondo ad avere la caruncola lacrimale, realizzata con una pietra rosa posta fra occhi e naso“.
“Sulla coscia di A, in alcune parti, si vede un colore abbronzato, segno di quel dorato pallido originario, ottenuto con l’uso del bitume, che per reazione restituisce un colore simile alla pelle umana“.
Perché biondi? “Non è raro nelle statue antiche. Anche il Kouros di Reggio o la Testa di Basilea hanno capelli e barba bionda. Nelle statue crisoelefantine, fatte cioè d’oro e d’avorio, era normale. Nel Museo di Napoli abbiamo una Afrodite di marmo con resti di colore nei capelli: è bionda“.
Un biondo “non biondo Marylin, ma fulvo, con del rosso. In greco biondo è ‘xanthos’ che in latino è ‘fulvus’“.
“Il fatto che fossero biondi avvalora la mia ipotesi sulla loro natura eroica e mitologica. La mia idea è che A e B siano Polinice ed Eteocle, fratelli di Antigone, che si sfidano a duello per il trono di Tebe. Publio Papinio Stazio, nell’XI libro della Tebaide, li descrive in modo preciso, perché li vede a Roma, forse esposti in una esedra sul Palatino“.
Secondo Castrizio, i bronzi erano esposti ai lati di un gruppo che vedeva al centro la loro madre Euryganeia, con le braccia allargate e disperata mentre cerca di dissuadere i figli dal duello, e tra loro Antigone e l’indovino Tiresia. “Le parole di Tiresia irritano Polinice, cioè A, che digrigna i denti, ecco perché sono d’argento e la sua bocca è aperta. Nel testo di Stazio, che vede le statue ma non conosce la storia di Stesicoro, e quindi scambia Tiresia per Creonte, si legge di un Polinice ‘hostile tuens’ che guarda cioè in modo ostile Eteocle, B, quando gli vede sulla testa la kyne’, la cuffia del potere militare e politico. Mentre B tiene basso lo sguardo, A lo tiene davanti a sé con l’occhio sinistro lievemente strizzato, come ci siamo accorti di recente e le misurazioni confermano“.
Secondo Castrizio, i bronzi, assieme ad altre opere d’arte, erano in viaggio verso Costantinopoli nel IV d.C., perché Costantino voleva adornare con esse la sua nuova capitale, Costantinopoli. Un evento avverso avrebbe costretto i marinari a disfarsi di buona parte del carico oppure fece affondare la nave: quel che appare strano è che i bronzi siano stati rinvenuti sott’acqua senza intorno altri materiali di contesto. Per tale motivo si è rafforzata la convinzione che qualcuno li abbia trascinati vicino alla costa prelevandoli dal luogo in cui probabilmente la nave che li portava sarebbe affondata.
Ritrovamento e recupero furono operazioni gestite in modo non particolarmente accurato e meticoloso: il ripescaggio avvenne in emergenza davanti a migliaia di curiosi, presenti i carabinieri sommozzatori di Messina, un solo archeologo, Pier Giovanni Guzzo, e lo scopritore ufficiale, il sub romano Stefano Mariottini, assente il soprintendente Giuseppe Foti.
I punti del rinvenimento non furono fissati con precisione.
A gettare ombre sulla scoperta, poi, una doppia versione che aprì un caso giudiziario, poi chiuso nel 1977 dal Tribunale di Roma che attribuì il premio di rinvenimento (125 milioni di Lire) al sub Mariottini, nonostante la sua denuncia scritta fosse arrivata nel pomeriggio del 17 agosto, preceduta, a mezzogiorno, da quella di 4 ragazzi di Riace, Cosimo e Antonio Alì, Domenico Campagna e Giuseppe Sgrò. Decisiva, per Mariottini, fu la dichiarazione del soprintendente Foti (“avvisato alle 21 del 16“), che non si preoccupò di avvisare le forze dell’ordine che si attivarono soltanto dopo la segnalazione dei 4 ragazzi: nel frattempo, la zona rimase incustodita per tutta la notte.
Nel 2005 Giuseppe Braghò, professore di Vibo Valentia, riprese in mano i documenti sulla scoperta rimasti per anni sottochiave nell’archivio della Soprintendenza di Reggio, rilevando alcune incongruenze nella versione del sub: ipotizzò l’esistenza di una terza statua e si mise alla ricerca del corredo dei bronzi. La testimonianza di Anna Diano, proprietaria di un noto hotel di Siderno, rintracciata da Braghò nel 2007, contribuì all’apertura di una indagine della Procura di Locri: la donna raccontò di aver visto due uomini in muta uscire dall’acqua trasportando un grosso scudo e una lancia spezzata mentre, a 300 metri, avveniva il recupero del primo bronzo.
Tra le carte della Soprintendenza in mano a Braghò, spuntò una segnalazione del 1981, in cui un trafficante di reperti rivelava del recupero di uno scudo di 65 kg avvenuto nei primi mesi del 1972 con l’aiuto di due pescatori “tacitati con 6 milioni di lire“, e della vendita al Getty Museum di un altro scudo e di un elmo. Il Getty si nomina ancora in un documento di risposta a un trafficante che, nel 1981, mostrò al giornalista Rai Franco Bruno le foto di uno scudo e di una lancia spezzata rivelando di averne tentato la vendita al Museo di Malibu.
Quella che sembra emergere è l’ipotesi che vorrebbe i due bronzi come parte di un importante carico di materiali archeologici destinati al mercato clandestino: l’assenza dei loro attributi (elmi, scudi, lance) sarebbe l’effetto di una prima spoliazione, in attesa di pianificare il recupero più impegnativo delle due imponenti statue, alte 1,97 e 1,98 metri e pesanti 160 kg.