“La corona solare è la parte più esterna dell’atmosfera del Sole. Si estende per diversi raggi solari ed è composta da plasma ad alcuni milioni di gradi, ben più caldo quindi della fotosfera (con una temperatura di circa 5600 gradi). Il meccanismo di riscaldamento della corona solare è un problema aperto da decenni. Tra i vari meccanismi proposti, nei suoi studi negli anni ’80 il fisico solare E. N. Parker propose che la corona fosse riscaldata da energia rilasciata da numerose piccole esplosioni, dette nanobrillamenti, rapide e altamente localizzate”, si legge in un articolo che riportiamo integralmente di seguito, a firma di Mario Guarcello, pubblicato sul sito dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf).
“I brillamenti (flares in inglese) sono certamente i fenomeni più spettacolari tra quelli che caratterizzano la corona solare. Questi fenomeni sono innescati da eventi di riconnessione magnetica, che sono accompagnati dal rilascio di grandi quantità di energia precedentemente immagazzinata nel campo magnetico. Il campo magnetico si può descrivere attraverso immaginarie linee di campo, che vengono continuamente “stirate” e avvolte dai moti turbolenti e caotici della fotosfera, dove sono ancorate. Alla lunga si possono verificare condizioni di grande stress per cui alcune linee di campo improvvisamente si “rompono” e si riagganciano ad altre, abbassando lo stress e rilasciando energia. Avviene appunto una riconnessione magnetica, che libera energia riscaldando la corona. Se guardiamo la corona nei raggi X questa appare proprio costituita da grandi archi magnetici luminosi e caldi a milioni di gradi. Nell’idea proposta da Parker, i fenomeni di riconnessione avvengono ripetutamente anche su scale molto piccole. I nanobrillamenti sono alcune miliardi di volte meno energetici dei grandi brillamenti (energie comunque enormi, pari a 1024 erg, ossia migliaia di volte maggiori dell’energia rilasciata dalle prime bombe nucleari), ma molto più numerosi e rapidi, tanto da poter essere responsabili del riscaldamento di gran parte della grande corona che vediamo nelle bande ad alta energia.
I nanobrillamenti non sono però mai stati osservati direttamente, a causa della difficoltà nel risolvere con la strumentazione esistente fenomeni sul Sole così rapidi e localizzati. Il team guidato dall’astrofisico Patrick Antolin (Northumbria University) ha però osservato per la prima volta un fenomeno associato ai nanobrillamenti, ossia i “nanojets”, analizzando alcune ore di osservazione di un sistema di grandi archi, che hanno raggiunto altezze tra i 20000 ed i 40000 chilometri, sul bordo del Sole.
Le osservazioni sono state ottenute il 3 Aprile del 2014 nell’estremo Uv con gli strumenti Atmospheric Imaging Assembly (Aia) del Solar Dynamics Observatory (Sdo) e Interface Region Imaging Spectrograph (Iris). I nanojets sono costituiti da flussi di particelle accelerate fino a velocità di alcune centinaia di km/sec dall’energia rilasciata da eventi localizzati di riconnessione magnetica. Sono previsti dalle teorie che descrivono i nanobrillamenti, come dimostrano anche le simulazioni magneto-idrodinamiche realizzate dagli autori di questo studio. I nanojets provano quindi inequivocabilmente la presenza di nanobrillamenti ed il loro ruolo nel riscaldamento del plasma. In particolare, i nanojets oggetto di questo studio hanno un’estensione di circa 500 chilometri ed una lunghezza tra i 1000 e 2000 chilometri e sono estremamente brevi, disperdendosi tipicamente in qualche decina di secondi.
I nanojets sono stati osservati lungo tutta l’arcata magnetica, con una frequenza che aumentava nel tempo. Alla fine del fenomeno, i ricercatori hanno contato più di 150 distinti eventi, ognuno dei quali ha disperso un’energia stimata nell’ordine di 1025 erg.
Oltre a Patrick Antolin, il team di ricercatori autori di questa importante ricerca è composto unicamente da astrofisici siciliani: Fabio Reale (Università degli Studi di Palermo e Inaf – Osservatorio Astronomico di Palermo) e i ricercatori Antonino Petralia (Inaf – Osservatorio Astronomico di Palermo), Paolo Pagano (University of St. Andrews) e Paola Testa (Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics)”, continua l’articolo.
«Il campo magnetico non si “vede”», spiega il Reale, «la riconnessione magnetica è un meccanismo che permette di dissipare in calore grandi quantità di energia magnetica, ma è sempre stata un fenomeno estremamente sfuggente, perché avviene su scale proibitivamente piccole e senza segni diretti. Noi ci occupiamo di questi problemi da decenni, ma oggi finalmente in questo lavoro viene individuata una “pistola fumante”, cioè piccoli getti che fuoriescono da grandi archi magnetici solari. Chi ci dice che siano segni di riconnessione? Erano già stati predetti dalla teoria, ma nel caso particolare ecco che ci vengono in aiuto i modelli: con il nostro supporto è stata messa a punto una simulazione di riconnessione che riproduce benissimo il fenomeno. È la conferma che il campo magnetico ‘scalda’ la corona a milioni di gradi attraverso piccole esplosioni che producono questi getti».
Tracce di Vesta su Bennu: prima osservazione diretta della contaminazione di un asteroide carbonaceo
Il violento passato di Ryugu e Bennu: la scoperta che fa luce sulle collisioni catastrofiche che hanno formato i due asteroidi
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Astronomy l’articolo “Reconnection Nanojets in the Solar Corona” di Patrick Antolin, Paolo Pagano, Paola Testa, Antonino Petralia & Fabio Reale