La verità su Halloween: non è una festa pagana, affonda le sue origini nel Sud Italia e nella leggenda irlandese dell’uomo che sconfisse il diavolo

Halloween è una tradizione più italiana di quanto non sembri: negli USA è arrivata partendo dalle nostre regioni del Sud e fondendosi con usanze irlandesi
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Che gli Stati Uniti d’America siano un crogiuolo di culture e tradizioni differenti è risaputo da sempre, fin dal momento stesso nella loro nascita. Dunque è difficile comprendere come una festa apparentemente importata dagli USA come Halloween sia così avversata da più fronti. Il 31 ottobre è arrivato e come ogni anno iniziano le polemiche tra chi ama questa festa e chi invece la ripudia additandola come festa del demonio e dei suoi adoratori. Appare logico che, come in ogni tradizione secolare che si rispetti, è necessario discernere due elementi: la genesi e le origini della festa da un lato, la sua evoluzione e trasformazione nel corso dei secoli dall’altro.

Partiamo dallo sfatare un mito, ovvero quello secondo il quale la festa sarebbe pagana e non avrebbe nessun nesso con il nostro Paese, e per farlo ricorreremo prima ad un carissimo e compianto scrittore italiano, Andrea Camilleri.

Ecco un brano tratto da “Il giorno che i morti persero la strada di casa” da I racconti quotidiani di Andrea Camilleri (Qua e là per l’Italia- Alma edizione, Firenze 2008):

Fino al 1943, nella nottata che passava tra il primo e il due di novembre, ogni casa siciliana dove c’era un picciliddro si popolava di morti a lui familiari. Non fantasmi col linzòlo bianco e con lo scrùscio di catene, si badi bene, non quelli che fanno spavento, ma tali e quali si vedevano nelle fotografie esposte in salotto, consunti, il mezzo sorriso d’occasione stampato sulla faccia, il vestito buono stirato a regola d’arte, non facevano nessuna differenza coi vivi. Noi nicareddri, prima di andarci a coricare, mettevamo sotto il letto un cesto di vimini (la grandezza variava a seconda dei soldi che c’erano in famiglia) che nottetempo i cari morti avrebbero riempito di dolci e di regali che avremmo trovato il 2 mattina, al risveglio.

I ‘morticini’ siciliani

Eccitati, sudatizzi, faticavamo a pigliare sonno: volevamo vederli, i nostri morti, mentre con passo leggero venivano al letto, ci facevano una carezza, si calavano a pigliare il cesto. Dopo un sonno agitato ci svegliavamo all’alba per andare alla cerca. Perché i morti avevano voglia di giocare con noi, di darci spasso, e perciò il cesto non lo rimettevano dove l’avevano trovato, ma andavano a nasconderlo accuratamente, bisognava cercarlo casa casa. Mai più riproverò il batticuore della trovatura quando sopra un armadio o darrè una porta scoprivo il cesto stracolmo. I giocattoli erano trenini di latta, automobiline di legno, bambole di pezza, cubi di legno che formavano paesaggi. Avevo 8 anni quando nonno Giuseppe, lungamente supplicato nelle mie preghiere, mi portò dall’aldilà il mitico Meccano e per la felicità mi scoppiò qualche linea di febbre.

I dolci erano quelli rituali, detti “dei morti”: marzapane modellato e dipinto da sembrare frutta, “rami di meli” fatti di farina e miele, “mustazzola” di vino cotto e altre delizie come viscotti regina, tetù, carcagnette. Non mancava mai il “pupo di zucchero” che in genere raffigurava un bersagliere e con la tromba in bocca o una coloratissima ballerina in un passo di danza.

A un certo momento della matinata, pettinati e col vestito in ordine, andavamo con la famiglia al camposanto a salutare e a ringraziare i morti. Per noi picciliddri era una festa, sciamavamo lungo i viottoli per incontrarci con gli amici, i compagni di scuola: «Che ti portarono quest’anno i morti?». Domanda che non facemmo a Tatuzzo Prestìa, che aveva la nostra età precisa, quel 2 novembre quando lo vedemmo ritto e composto davanti alla tomba di suo padre, scomparso l’anno prima, mentre reggeva il manubrio di uno sparluccicante triciclo.

Insomma il 2 di novembre ricambiavamo la visita che i morti ci avevano fatto il giorno avanti: non era un rito, ma un’affettuosa consuetudine.

albero di natalePoi, nel 1943, con i soldati americani arrivò macari l’albero di Natale e lentamente, anno appresso anno, i morti persero la strada che li portava nelle case dove li aspettavano, felici e svegli fino allo spàsimo, i figli o i figli dei figli. Peccato. Avevamo perduto la possibilità di toccare con mano, materialmente, quel filo che lega la nostra storia personale a quella di chi ci aveva preceduto e “stampato”, come in questi ultimi anni ci hanno spiegato gli scienziati. Mentre oggi quel filo lo si può indovinare solo attraverso un microscopio fantascientifico. E così diventiamo più poveri: Montaigne ha scritto che la meditazione sulla morte è meditazione sulla libertà, perché chi ha appreso a morire ha disimparato a servire”.

Pazzesco vero? Camilleri come sempre riesce ad essere esaustivo e perfetto nella narrazione, utilizzando le parole e i concetti più semplici. Non solo spiega come la tradizione dei morti che tornano dall’aldilà non sia ‘cosa recente’, né tanto meno “un’americanata”, ma addirittura va’ oltre accennando all’albero di Natale, il quale non è affatto parte della nostra tradizione, eppure lo consideriamo tale. Dunque, perché l’albero di Natale sì e Halloween no?

Andiamo a scomodare ora un antropologo, ovvero Luigi Maria Lombardi Satriani, secondo cui le origini della ricorrenza celebrata la notte del 31 ottobre e resa nota nel mondo dalla tradizione statunitense del ‘dolcetto o scherzetto’ sarebbero italiane, e in particolare delle regioni del Sud. In un volume scritto insieme a Mariano Meligrana negli anni Novanta, dal titolo “Il ponte di San Giacomo”, Satriani rileva che l’usanza di svuotare una zucca, ricavarne occhi e tratti che ricordano un viso umano, e porvi all’interno una candela risale alla migrazione delle popolazioni meridionali in America. La ragione è antropologica, ovvero il bisogno di stabilire una sorta di comunicazione con i cari defunti. Esattamente come raccontato da Camilleri. Halloween, dunque, sarebbe una ”festa di ritorno” per gli italiani del sud.

E la tradizione della zucca vuota e intagliata è presente, ad esempio, in Calabria. Basti pensare all’usanza del “Coccalu di muortu” di Serra San Bruno, nel vibonese. I ragazzini riproducono un teschio intagliando la zucca e lo portano in giro per il paese, quindi bussando alle porte delle abitazioni o a chi incontrano per strada chiedono “Mi pagate il coccalu?”. Una scena che ricorda molto il “trick or treat?” ovvero “dolcetto o scherzetto?” della tradizione di Halloween statunitense.

La medesima cosa vale per alcuni paesi della provincia reggina, nei quali i bambini scavavano delle zucchine, quelle verdi tipiche del posto, e vi inserivano una candela all’interno. Il 2 novembre andavano in giro ‘case, case’, come direbbe Camilleri, e chiedevano “Ndi dati i morti?“, ovvero “Ci date i morti?, che era come chiedere di rispettare e ricordare i morti con un dono fatto ai bimbi. In cambio di questa richiesta, che anche in questo a ben vedere ricorda quella di “dolcetto o scherzetto“, i piccoli ricevevano monete, castagne, noci, uva passa e altri frutti tipici dell’autunno.

Sempre restando in Calabria, è ancora molto forte la ricorrenza di Ognissanti in preparazione alla commemorazione dei defunti. Anticamente si usava andare in corteo al cimitero e ci si fermava a mangiare sulle tombe, come per voler fare compagnia ai defunti. Si tratta di una tradizione di origine arberesh, ovvero delle comunità calabre di antiche origini albanesi. Ai bambini veniva regalata anche una calza con i dolci. Le pietanze tipiche del periodo sono la “lagana e ceci” (fettuccine fatte in casa con i ceci) e i dolci preparati con pasta di mandorle, dalla forma allungata.

Le magare di San Fili

Ci sono anche curiosità intorno al mistero che coinvolge alcune comunità calabresi. San Fili, paese della provincia di Cosenza, viene chiamato anche “il paese delle magare, ovvero le fattucchiere, le streghe. Sebbene temute per i loro poteri, in realtà molti andavano da loro, per lo più dai paesi vicini, a chiedere interventi che si pensava avessero del soprannaturale. La leggenda vuole che venissero ricompensate per i loro servigi non in denaro ma con prodotti della natura. Oggi quella leggenda è diventata una rassegna culturale, ovvero “La notte delle magare” che si svolge in estate. E leggende simili vengono raccontate e tramandate anche in altri comuni del cosentino.

Halloween, insomma, è semplicemente l’evoluzione di una tradizione che dura da secoli e che appartiene anche al nostro Paese. Continuare ad additarla come festa del demonio è un pericoloso retaggio di una cultura atavica e ottusa che non porterà a nulla. Anzi, che potrebbe portare a vedere come piccoli adoratori di Satana degli innocenti bambini vestiti da fantasmini o da streghette.

LA LEGGENDA DI JACK O’LANTERN, L’UOMO CHE SCONFISSE IL DIAVOLO

halloween
Foto Getty

Dal connubio tra la tradizione del Sud Italia e una leggenda islandese, nacque dunque la festa di Halloween, che si è consolidata negli USA nel corso dei secoli. La vicenda islandese è la storia di un fabbro dedito all’alcol di nome Jack, che ebbe la sventura di incontrare il diavolo in un pub proprio la notte tra il 31 ottobre e il primo novembre. Jack, brillo come da sua abitudine, stava per cadere nelle mani di Lucifero giunto fin lì per reclamare la sua anima, ma riuscì a raggirarlo. Gli chiese di concedergli un’ultima bevuta. Il diavolo, allora, si trasformò in una moneta da 6 pence per pagare l’oste ma Jack intascò la moneta mettendola vicino a una croce d’argento che il beone portava sempre con te: il diavolo non riusciva più dunque a tornare alla sua forma originaria. Jack promise di lasciarlo andare, ma ad una condizione: il re degli inferi non doveva più reclamare la sua anima per almeno dieci anni. Il Diavolo accettò e mantenne la sua promessa.

Esattamente due lustri dopo, mentre Jack camminava lungo una strada di campagna, incontrò Lucifero tornato nuovamente a reclamare la sua anima. A quel punto meditò su come riuscire a fargliela ancora una volta sotto al naso e gli disse: “Verrò con te, ma prima potresti prendermi una mela da quell’albero?”. Il diavolo, convinto che fosse un’azione semplice e senza particolari rischi, saltò sulle spalle di Jack per prendere la mela. Lo scaltro Jack tirò fuori un coltello e intagliò una croce sul tronco dell’albero. Il demonio restò dunque a mezz’aria, incapace di raggiungere Jack e tanto meno la sua anima. L’uomo gli fece promettere di non tornare mai più per reclamare la sua anima e, non avendo alternative, il diavolo accettò.

Quando Jack morì, anni dopo, non fu ammesso in paradiso a causa della sua vita da peccatore, ubriacone e truffatore. Si recò dunque davanti alle porte dell’inferno, ma il diavolo lo cacciò via. “E dove altro posso andare?“, chiese Jack. “Torna da dove sei venuto!”, gli rispose il diavolo. Ma la strada del ritorno era buia e ventosa e Jack lo implorò di dargli almeno una lanterna per trovare la strada. Lucifero gli gettò un tizzone ardente proveniente dalle fiamme dell’inferno, e per evitare che il vento lo spegnesse Jack lo mise all’interno di una rapa che stava mangiando. Da allora l’uomo fu condannato a vagare nell’oscurità con la sua lanterna fino al giorno del Giudizio.

La tradizione e in parte anche la ‘fusione’ con la tradizione italiana, ha fatto sì che la rapa diventasse una zucca, soprattutto in virtù del fatto che gli immigrati irlandesi, fuggiti dalle loro terre per una carestia nel IXI secolo e arrivati in America, non trovarono rape grandi a sufficienza da poter intagliare. Le zucche, invece, più grosse e facili da incavare, abbondavano e andarono validamente a sostituire le rape.

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