Un gruppo di ricercatori dell’Istituto Europeo di Oncologia e dell’Università di Milano, guidato da Giuseppe Testa, Direttore del Laboratorio IEO di Modellistica ad alta definizione delle malattie e Professore Ordinario all’Università di Milano, ha dimostrato che la forma più aggressiva e più diffusa di tumore ovarico ha origine da due tipi di cellule provenienti da tessuti diversi: si tratta dunque di due malattie distinte, ciascuna con la propria prognosi e curabilità. I risultati della ricerca, finanziata dalla Fondazione Associazione Italiana per la Ricerca Contro il Cancro e dal Ministero della Salute, sono pubblicati oggi sull’ autorevole rivista Genome Medicine.
“La nostra ricerca è una svolta nella comprensione del cancro ovarico, una delle maggiori sfide per l’oncologia mondiale e una delle più gravi malattie che affliggono le donne – commenta Testa – Nel mondo oltre 200.000 donne ogni anno scoprono di essere colpite da questo tumore e in più del 70% dei casi si tratta di temibili carcinomi sierosi di alto grado, che hanno purtroppo una curabilità molto bassa. L’incertezza circa il tessuto d’origine ha infatti finora ostacolato la scoperta dei processi molecolari che causano la malattia, e di conseguenza lo sviluppo di terapie mirate. La motivazione principale è il ritardo nella diagnosi: le pazienti nella maggioranza dei casi arrivano ai centri specializzati quando la malattia, favorita anche dalla posizione anatomica, è così avanzata da rendere difficile non solo offrire cure efficaci, ma anche ricostruire la patogenesi del tumore. Noi siamo riusciti in questa impresa, grazie a un approccio epigenetico molto innovativo e a metodiche di ampia e immediata applicabilità clinica. Si sono impegnate al nostro fianco le eccellenze cliniche e chirurgiche IEO, in collaborazione con il TIGEM (Telethon Institute of Genetics and Medicine) di Napoli e con il Programma Tedesco per l’Epigenoma DEEP (Deutsches Epigenom Programm)”.
“Per capire da quale tessuto nasceva il tumore – spiega Pietro Lo Riso, primo autore dello studio – abbiamo cercato un marcatore epigenetico in grado di distinguere le due possibili origini: le tube di Falloppio e l’epitelio ovarico. Abbiamo utilizzato un approccio basato sulla metilazione del DNA, uno dei meccanismi che modulano l’espressione dei geni, in pratica una delle istruzioni che la cellula usa per attivare nel suo DNA le parti che le permettono di acquisire la sua identità. La nostra ipotesi di partenza era che nella trasformazione neoplastica potesse rimanere una “memoria” della cellula di origine, cioè che nel tumore ci fossero tracce di metilazione del DNA proprie del tessuto in cui era nato. Quindi abbiamo prima identificato l’impronta epigenetica specifica dei due tessuti, cioè un insieme di regioni del DNA differentemente metilate nell’epitelio ovarico e in quello delle tube, e abbiamo utilizzato questa impronta come marcatore per distinguere i due tumori”.
“Abbiamo dimostrato – continua Emanuele Villa, coautore della ricerca – che l’impronta epigenetica della cellula d’origine è in grado di discriminare due sottotipi clinicamente distinti di cancro ovarico. Questa distinzione ha un forte impatto sulla prognosi perché sappiamo che una forma, quella che origina nell’epitelio stesso dell’ovaio, è più aggressiva dell’altra. Ma soprattutto può avere un forte impatto sulla terapia perché conoscendo il tessuto d’origine, possiamo identificare anche le alterazioni molecolari che hanno guidato la sua trasformazione da sano a neoplastico e quindi possiamo cercare terapie mirate per ripararle.”
“Per il trasferimento dei risultati alla pratica medica – concludono i ricercatori – dovremo aspettare di essere pronti per uno studio clinico sperimentale. Tuttavia i risultati appena pubblicati hanno già un effetto immediato perché indicano una nuova roadmap per la lotta al tumore ovarico permettendo di incanalare in maniera razionale lo sviluppo di terapie più efficaci per ciascuna delle due forme tumorali che abbiamo identificato”.