C’è una gigantesca struttura cosmica, composta da un buco nero supermassiccio circondato da sei galassie, già presente quando l’universo aveva meno di un miliardo di anni, ovvero il sette per cento della sua attuale età. A scoprirla è stata un team di astronomi, in gran parte dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, grazie alle osservazioni realizzate con il Very Large Telescope (VLT) dell’ESO e al Large Binocular Telescope (LBT) di cui l’INAF è uno dei partner internazionali. È la prima volta che una simile struttura è stata osservata in un’epoca così remota del cosmo: la scoperta aiuterà gli scienziati a comprendere meglio i processi di formazione dei buchi neri supermassicci, in particolare la straordinaria velocità con cui questi oggetti celesti estremi possono accrescere la loro massa se si trovano all’interno di grandi strutture ricche di gas che contengono abbondanti riserve di materia.
“Il desiderio di comprendere alcuni degli oggetti astronomici più complessi, ovvero i buchi neri supermassicci dell’Universo primitivo, ha guidato questo nostro studio” dice Marco Mignoli, dell’INAF di Bologna, primo autore dell’articolo che descrive la scoperta, pubblicato oggi sulla rivista Astronomy & Astrophysics Letters. “Si tratta di sistemi estremi e, ad oggi, non abbiamo ancora una completa spiegazione della loro nascita e crescita”.
Le osservazioni del team a guida italiana hanno rivelato alcune galassie che circondano un buco nero supermassiccio, posizionato in una complessa struttura cosmica composta di filamenti di materia che si estendono per una distanza di oltre 300 volte la dimensione della Via Lattea. “Possiamo pensare agli addensamenti di gas presenti in questa struttura come ai fili di una gigantesca ragnatela“, spiega Mignoli. “Le galassie si trovano ed evolvono dove questi filamenti si incrociano. Al loro interno fluiscono grandi quantità di gas, che alimenta sia le galassie stesse che probabilmente il buco nero supermassiccio al centro di questa struttura”.
Mignoli e il suo team hanno scovato questa grande struttura dominata da un buco nero con una massa stimata di un miliardo di volte quella del Sole, in un’epoca in cui l’Universo aveva appena 900 milioni di anni. “Col nostro lavoro abbiamo aggiunto un pezzo importante al puzzle, oggi ancora incompleto, che descrive come si formano ed evolvono così rapidamente questi oggetti celesti estremi già all’alba dell’universo“, dice Roberto Gilli, anche lui astronomo dell’INAF di Bologna e coautore dello studio.
I primissimi buchi neri, che si pensa si siano formati dal collasso della prima generazione di stelle devono essere “ingrassati” molto velocemente per raggiungere masse di un miliardo di Soli in “appena” 900 milioni di anni dal Big Bang. Ma spiegare come siano disponibili quantità sufficientemente grandi di “carburante per buchi neri” per permettere a questi oggetti di crescere fino a raggiungere dimensioni così enormi in breve tempo è tutt’altro che semplice. La struttura appena scoperta offre una ragionevole spiegazione: le grandi quantità di gas in essa contenute possono fornire il carburante di cui il buco nero centrale ha bisogno per diventare rapidamente supermassiccio.
Ma come si sono formate strutture reticolari così estese? Gli astronomi pensano che gli aloni giganti di misteriosa materia oscura siano la chiave. Si pensa che queste grandi concentrazioni di materia invisibile attirino enormi quantità di gas nelle prime fasi evolutive dell’Universo; insieme, il gas e la materia invisibile producono strutture simili a ragnatele dove le galassie e i buchi neri possono formarsi e crescere.
“La nostra scoperta supporta l’idea che i buchi neri più lontani e massicci si formano e accrescono all’interno di aloni di materia oscura massicci all’interno di strutture su larga scala, e che la mancanza di precedenti avvistamenti di tali strutture era probabilmente dovuta a limiti osservativi” sottolinea Roberto Decarli, anch’egli astronomo dell’INAF di Bologna.
Le galassie scoperte all’interno di questa struttura sono tra i più deboli oggetti che possono essere individuati dai migliori telescopi oggi operativi. Per riuscire in questa impresa gli astronomi hanno infatti utilizzato tre dei più grandi telescopi ottici al mondo: il VLT dell’ESO, il Large Binocular Telescope (LBT) ed il W.M. Keck Observatory. La ricerca è iniziata otto anni fa quando, grazie all’eccezionale qualità delle immagini fornite dalla Large Binocular Camera montata su LBT, il team ha selezionato circa venti galassie che, a causa dei loro colori fotometrici caratteristici, erano probabilmente situate nelle vicinanze del buco nero centrale. Negli anni seguenti, utilizzando strumenti spettroscopici sui telescopi LBT, Keck e VLT è stato effettivamente confermato che almeno sei di quelle galassie si trovano nelle vicinanze del buco nero.
“Siamo convinti che di questa gigantesca ragnatela cosmica abbiamo solo visto la punta dell’iceberg: le galassie scoperte finora intorno a questo buco nero supermassiccio sono probabilmente solo le più luminose. Altre sono ancora nell’ombra, ma per poco: grazie ai telescopi di nuova generazione che entreranno in funzione nei prossimi anni, come l’Extremely Large Telescope e la sua strumentazione d’avanguardia, potremo finalmente avere una visione senza precedenti di questa e di molte altre strutture simili agli albori dell’universo“, conclude Barbara Balmaverde, astronoma dell’INAF a Torino e anche lei nel team che ha realizzato la scoperta.
La ricerca è stata pubblicata sulla rivista Astronomy & Astrophysics Letters nell’articolo The web of the Giant: spectroscopic confirmation of a Large Scale Structure around the z=6.31 quasar SDSS J1030+0524 di Marco Mignoli, Roberto Gilli, Roberto Decarli, Eros Vanzella, Barbara Balmaverde, Nico Cappelluti, Letizia P. Cassarà, Andrea Comastri, Felice Cusano, Kazushi Iwasawa, Stefano Marchesi, Isabella Prandoni, Cristian Vignali, Fabio Vito, Giovanni Zamorani, Marco Chiaberge e Colin Norman.
Di seguito un’intervista video (realizzata da Marco Malaspina) a Marco Mignoli, ricercatore dell’Istituto Nazionale di Astrofisica che ha coordinato lo studio pubblicato oggi sulla rivista Astronomy & Astrophysics Letters.