I bronzi di Riace ed il Museo Nazionale Archeologico di Reggio Calabria

Storia, reperti e curiosità sul Museo Nazionale Archeologico di Reggio Calabria che ospita i Bronzi di Riace
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L’avventura misteriosa dei due guerrieri di bronzo

I fondali marini del Mediterraneo assomigliano a scrigni preziosi che hanno custodito per millenni ricchezze artistiche di inestimabile valore: a volte questi tesori riemergono dalle profondità del mare come è accaduto per l’eccezionale rinvenimento delle due statue bronzee più famose al mondo, i Bronzi di Riace, avvenuto il 16 agosto 1972 al largo della spiaggia di Riace Marina. Il sub romano Stefano Mariottini, in vacanza in Calabria, era intento nella pesca subacquea quando la sua attenzione fu catturata da qualcosa che emergeva dal fondale.

Si avvicinò e si accorse che era un braccio e temendo si trattasse di un cadavere la prima reazione fu di paura. In un secondo momento lo toccò e capì che era fatto di metallo. Riemerse e si immerse più volte smuovendo la sabbia circostante e scoprendo che si trattava di una intera statua. A distanza di qualche metro, poco dopo, scorse un’altra statua: una era coricata di schiena e l’altra conficcata nella sabbia su un fianco. Entrambe giacevano approssimativamente a 300 m. dalla costa e ad 8 m. di profondità.

La sera stessa Stefano Mariottini telefonò alla Soprintendenza Archeologica di Reggio Calabria per comunicare la sua sensazionale scoperta. Al recupero delle due statue, avvenuto il 21 agosto successivo, presero parte i Carabinieri sommozzatori del nucleo di Messina e la Soprintendenza Archeologica della Calabria. Queste operazioni furono immediatamente seguite dall‘esigenza di una esplorazione scientifica accurata di quei fondali, per la speranza di nuovi recuperi e per verificare l’eventuale presenza di un relitto.

Unico tentativo in tal senso fu effettuato lo stesso anno, nel mese di novembre, ad opera del Centro Sperimentale di Archeologia Sottomarina dell’Istituto di Studi Liguri e del suo Direttore Nino Lambogia. Le condizioni avverse del mare ostacolarono tale impresa e le operazioni ripresero solo l’anno successivo, tra la fine di agosto ed i primi del mese di settembre. Durante questa esplorazione fu rinvenuta la maniglia di uno scudo appartenente alla statua A anche se l’assenza del relitto fece supporre al Lambogia che le statue non fossero affondate sulla nave che le trasportava ma che fossero state gettate in mare come carico ingombrante, una pratica comune nell’antichità. L’ipotesi che la nave, alleggerita del suo peso, fosse riuscita ad evitare il naufragio crea ulteriori dubbi perchè l’equipaggio avrebbe organizzato il ripescaggio dei beni dispersi in mare. Per tale motivo l’ipotesi del “getto a mare” è stata scartata a favore di un naufragio avvenuto in un punto distante da quello dove è andato disperso il carico prezioso. Ad oggi l’enigma di come le due statue siano finite lì non è risolto e l’antico viaggio dei Bronzi ed il loro naufragio nel Mar Ionio restano avvolti nel mistero.

Un aspetto “divino”

“Come la profondità del mare che resta sempre immobile per quanto agitata ne sia la superficie, l’espressione delle figure greche per quanto agitate da passioni mostra sempre un’anima grande e serena. J. J. Winckelmann

Alcune opere d’arte non risentono del passare del tempo, dei secoli e dei millenni proprio perché costituiscono dei capolavori assoluti ed i Bronzi di Riace sono fra queste. Di fronte a queste due statue, chiamate “A” e “B” o anche “il Giovane” e “il Vecchio”, si rimane letteralmente senza fiato: si è travolti dalla loro eleganza, dalla loro bellezza, dall’impressione di forza vitale che emanano e lo sguardo estasiato dei visitatori che si apprestano ad uscire dalla sala che li ospita ne è la prova lampante. Incanta non solo la perfezione delle loro proporzioni, il portamento e la postura perché, fermando lo sguardo sui muscoli, si osservano le vene che pulsano nel bronzo!

I dettagli anatomici sono estremamente accurati: gli occhi sono in calcite bianca con le iridi in pasta vitrea, le labbra, le ciglia ed i capezzoli sono in rame e i denti in lamina d’argento. Sono custoditi nella sezione D del Museo Nazionale di Reggio Calabria, al pianoterra, insieme alla Testa del Filosofo ed alla Testa di Basilea in un ambiente dotato di idonea climatizzazione e di sistema antisismico ed al quale si accede dopo una breve sosta nell’area filtro antinquinamento. Nell’attesa di poter entrare nella sala riservata alle statue viene proiettato un video-documentario che ne illustra la storia, le modalità di restauro e le tecnologie di conservazione. Ancora oggi, a distanza di quasi cinquanta anni dalla scoperta, non è stato possibile attribuirli con esattezza a nessun artista ma un elemento certo, su cui gli studiosi concordano, è la data di nascita, nella metà del V sec. A. C. Ad una prima osservazione i due Bronzi appaiono molto simili ma, esaminandoli nei dettagli, ci rendiamo conto di quanto siano diversi.

Le loro dimensioni sono imponenti: Il Giovane è alto 1,98 ed Il Vecchio 1,97 e quindi, considerando che la statura media di un uomo di duemila anni fa era di 1, 62- 1,65, sono dei veri giganti. Le gambe sono lievemente divaricate ma saldamente ancorate a terra; la sinistra è piegata, mentre sulla destra è caricato il peso del corpo. Nel Giovane questo movimento non si trasmette alla parte superiore del torace, dove pettorali e spalle sono in posizione quasi perfettamente orizzontale; nell’uomo maturo invece si ripercuote sia sui pettorali, definiti da una linea inclinata, sia sulle spalle, con la destra lievemente abbassata rispetto all’altra. In entrambi le braccia non sono rigide e aderenti ai fianchi, ma se ne allontanano per reggere le armi e gli scudi, andati perduti. Entrambe le figure sono raffigurate nella posizione “a chiasmo”, dalla lettera greca X, dove le parti creano un incrocio.

Questa particolare posizione è stata molto utile all’indagine storica perché ha permesso agli studiosi di riconoscere i Bronzi di Riace come originali del V sec. A.C. e di formulare affascinanti ipotesi sulla loro attribuzione. La disposizione incrociata tra gli arti inferiori e gli arti superiori si osserva nelle statue di Policleto, il primo artista antico di cui esista giustificazione teorica dell’attività artistica. Fra gli scultori greci classici Policleto si prefissò un obiettivo ambizioso: fondare col sostegno della matematica un sistema di regole per la costruzione di una figura umana perfetta, nella quale le misure e la posa rispondessero ad una attenta proporzione. Le sue riflessioni sono raccolte nel “Canone” e illustrate attraverso una sua opera, il Doriforo, che doveva esserne l’applicazione concreta. Policleto sviluppa la verticale del corpo secondo una “S” molto ampia per cui la parte inferiore e superiore del corpo seguono una curvatura opposta che conferiva all’insieme un effetto di armonico equilibrio. L

a linea del bacino e quella delle spalle non erano più orizzontali ma inclinate in direzione opposta e gli arti inferiori e superiori agivano a coppie contrapposte: due erano tesi e due erano rilassati, ma non sullo stesso lato. Storici e critici d’arte hanno rilevato una differenza significativa tra il Giovane e l’Uomo maturo: il primo risulta nel complesso più rigido e statico, mentre nel secondo il bilanciamento delle forze è più naturale e l’impressione di maggiore dinamismo che offre sembra subire l ‘influsso di Policleto. Importanti somiglianze sono state notate fra la statua A e lo Zeus di Capo Artemision, attribuito forse a Kalamis: la muscolatura, la chioma, la barba, l’uso del rame per le labbra ed i capezzoli. Ma la statua A, nonostante tali somiglianze, è ricca di una espressività e di un pathos che ricordano Fidia. La scultura greca del periodo classico offre una nuova immagine della figura umana che abbandona la rigidità arcaica e che, per la prima volta nella storia dell’arte, scopre l’uomo in quanto uomo, raffigurandolo attraverso l’espressività del suo corpo.

La miracolosa naturalezza di queste sculture nasceva dal fatto che il movimento più energico si fondeva alla calma più semplice e sembrava anzi provenire da essa. Una certezza è rappresentata dalla tecnica della fusione a cera persa” con la quale i due meravigliosi Bronzi sono stati realizzati: lo scultore creava un agglomerato di argilla con la forma imprecisa della scultura da realizzare e questo veniva rivestito da uno strato di cera su cui realizzare ogni dettaglio della scultura. Questa era avvolta, a sua volta, da un altro strato di argilla, in cui venivano lasciati due fori, e che costituiva il calco. Il bronzo fuso veniva colato nel calco causando lo scioglimento della cera (che fuoriusciva dai fori) ed occupando lo spazio lasciato libero da questa. Il bronzo, solidificandosi, causava la rottura del calco e la scultura in bronzo veniva liberata. Le due statue erano costituite, quindi, da un involucro esterno di bronzo, costoso e poco reperibile, e da un’anima interna di argilla che veniva rimossa per rendere leggere le statue.

Una recente teoria curata dal Prof. Daniele Castrizio sostiene che i bronzi erano 5 e non 2 e che fossero, in origine, biondi e di colore dorato: una ricostruzione, questa, che si fonda non solo su fonti letterarie ma su recenti analisi effettuate sull’argilla. Le statue, realizzate ad Argos nel Peloponneso nella metà del V secolo nella stessa bottega ma da maestranze diverse, hanno acquisito il colore nero dopo il restauro avvenuto a Roma. Probabilmente, infatti, erano esposti ad Argo ma, dopo la conquista della Grecia e le spoliazioni del 146 a.C., furono portati nella capitale.

In quel periodo la statua B ricevette un nuovo braccio destro ed un avambraccio sinistro realizzati su calco dei vecchi. Alla statua A furono sostituiti elmo e scudo e per uniformarli, trattandosi di materiali diversi, furono colorati di nero con una pittura allo zolfo. Secondo Castrizio, i Bronzi, corrispondenti a Polinice ed Etocle, fratelli di Antigone, che si sfidano a duello per il trono di Tebe, erano esposti ai lati di un gruppo con al centro la madre che cerca di distogliere i figli dal duello. Il mistero delle altre tre presunte statue però rimane irrisolto: secondo Castrizio le statue erano in viaggio verso Costantinopoli nel IV secolo d. C. ma un evento disastroso avrebbe affondato la nave o, forse, indotto i marinai a disfarsi del carico.

La bellezza per i Greci

Se le incertezze riguardo la paternità dei Bronzi permangono, una certezza la abbiamo: non rappresentano due uomini dall’aspetto comune: i lineamenti del viso, la muscolatura, la statura tanto superiore alla media del tempo li fanno apparire di una bellezza non comune ma “divina”. Per i Greci la bellezza esteriore era sempre associata alle qualità morali dell’individuo: era la manifestazione visibile della bellezza dell’anima e del carattere. Il concetto di “bello” comprendeva la virtù, il coraggio e la dignità e le opere d’arte che abbellivano le loro città non servivano solo per allietare lo sguardo, ma erano fonte di ispirazione morale per i cittadini. Fidia e Policleto portano al più alto livello questo principio nella scultura del periodo classico. Soggetto preferito delle arti figurative del tempo è l’essere umano ed al suo corpo viene applicato quell’ideale di bellezza come proporzione ed armonia che anima la cultura greca del VI-V secolo.

Nel corso dei secoli, la concezione della bellezza si è trasformata molto. Quel canone che vuole che un corpo bello sia perfettamente proporzionato ed armonioso rimane un elemento di continuità con la cultura greca classica ma è singolare notare che, invece, sono cambiati parecchio i criteri della bellezza femminile: le forme morbide e arrotondate che si osservano nel primo nudo di donna della scultura greca, l’Afrodite di Prassitele, scolpita circa un secolo più tardi dei Bronzi, sono oggi sostituite da modelli fisici di donna molto più asciutti e tonici. Se oggi la bellezza, ed in particolare la nudità, è molto legata al sex appeal, questa enfasi non apparteneva alla cultura classica: nudi erano raffigurati gli dèi o quei mortali, atleti o eroi, che grazie alle loro virtù eccezionali potevano accostarsi al livello della divinità. Se la nudità, infatti, non avesse avuto questo significato non ci sarebbe stato motivo di rappresentare uomini completamente svestiti, senza abiti ma armati di scudi ed elmi.

Polemiche e indagini dalla scoperta ad oggi

Dal momento del ritrovamento ad oggi si sono diffuse negli anni voci secondo cui, nel periodo fra la scoperta ed il recupero delle statue, alcune parti dei Bronzi sarebbero state rubate e poi vendute. Che gli elmi, gli scudi e le lance siano, invece, andati persi in passato è possibile ma tuttora permangono dubbi. Nel 2007 un’inchiesta del Quotidiano della Calabria solleva numerosi interrogativi: le statue erano due oppure tre al momento del ritrovamento? Qualcuno affermò di aver visto uno scudo e gli elmi e, se fosse vero, dove si trovano? Il Ministero per i Beni culturali e la Procura di Locri diedero mandato di svolgere una indagine ufficiale ai Carabinieri del Nucleo per la Tutela del Patrimonio Culturale di Cosenza.

Secondo qualcuno le circostanze del ritrovamento apparvero incerte vista la poca distanza da una spiaggia molto frequentata e inoltre, considerata la bassa profondità dei fondali, ci si chiese perché nessuno si fosse accorto prima della loro presenza. La possibilità che fossero state poggiate in quel punto per essere portate via successivamente non convinse sia per l’eccesivo peso delle due statue, che ne avrebbe reso complicato lo spostamento, sia perché erano molto bene ancorate al fondale e ricoperte di sabbia tanto da far supporre che si trovassero lì da tantissimo tempo. La motivazione più attendibile per cui i Bronzi non sono stati scoperti prima è che una mareggiata violenta, avvenuta quello stesso anno, possa aver smosso la sabbia e averli resi visibili. La perplessità riguardo la presenza di un terzo guerriero deriva dalla lettura dei documenti originali redatti all’epoca da Stefano Mariottini e dal responsabile delle operazioni di recupero, l’archeologo Pietro Giovanni Guzzo nei quali si parla letteralmente di “un gruppo di statue”, di uno scudo e di un elmo che non sono mai stati recuperati dai sommozzatori dei carabinieri di Messina.

Stefano Mariottini giustificò in seguito la sua dichiarazione spiegando “che questa venne suggerita dalla Soprintendenza che considerava possibile la presenza di altre statue vicine a quelle avvistate”. Ma un altro elemento poco chiaro, riguardante la statua B, si riscontra nella denuncia di Mariottini: dichiarò “che presentava sul braccio sinistro uno scudo” salvo poi spiegare che si trattò di un errore di valutazione dovuto alla presenza di sabbia che credeva avesse coperto lo scudo. Proprio rispetto allo scudo e ad una lancia vi è la testimonianza apparentemente attendibile di una donna che sosteneva di aver visto dei movimenti sospetti sulla costa proprio nei giorni in cui si effettuava il recupero delle statue. Sembra possibile che nel periodo intercorso fra la denuncia della scoperta ed il recupero qualcuno avesse trafugato dal sito alcune parti dei Bronzi. Di recente una inchiesta delle Iene Antonino Monteleone e Marco Occhipinti torna ad occuparsi del ritrovamento dei due guerrieri confermando che si tratta di una vicenda ancora piena di misteri

. I giornalisti raccolgono la testimonianza clamorosa di un uomo, che se fosse vera metterebbe in discussione la storia ufficiale di uno dei ritrovamenti archeologici più importanti di tutti i tempi. Nel lontano 1981 il settimanale Oggi raccontava di un mercante clandestino di reperti archeologici che ammetteva di aver venduto uno degli elmi sottratti agli eroi al Museo Paul Getty di Malibù. Le tracce di questo uomo misterioso sembravano perse fin quando si riuscì a rintracciarlo. Dopo lunghi appostamenti l’uomo venne raggiunto ed intervistato. Raccontò di essere proprio lui ad aver venduto l’elmo della statua B e di averlo recuperato personalmente sulla spiaggia di Riace. Stando al suo racconto la scoperta dei Bronzi sarebbe avvenuta con anticipo rispetto alla denuncia effettiva di Mariottini e questo tempo sarebbe stato sufficiente a far sparire un elmo, una lancia, uno scudo e, forse, altro ancora.

L’uomo raccontò di aver portato l’elmo a Roma al curatore del Getty Museum, famoso archeologo americano. Costui, intervistato sulla vicenda, negò di aver mai avuto contatti con il testimone intervistato dalle Iene. Quel giorno sulla spiaggia di Riace c’era anche la Signora Anna Diano, ora defunta, che raccontò di aver visto uscire dal mare due pescatori in muta con in spalla un enorme scudo bronzeo ed una lancia. Se il racconto dell’uomo intervistato dalle Iene e la testimonianza della Signora Diano fossero vere avremmo rintracciato l’elmo, uno dei reperti dei Bronzi di Riace di cui si parla nei documenti ufficiali e mai più recuperati dalle autorità nel 1972.

Il ritrovamento stesso delle due statue, da parte del sub romano, fu messo in discussione dalle dichiarazioni di alcuni ragazzi del luogo che sostenevano di aver avvistato loro, per primi, “una sola statua” il 16 agosto ma, sprovvisti di attrezzatura adeguata, avevano effettuato una nuova immersione la mattina del giorno seguente e, immediatamente dopo, si erano recati a fare denuncia presso la Guardia di Finanza di Monasterace. Le complicate vicende, affidate al Tribunale, vedono uscirne vincitore il sub romano Stefano Mariottini. Ma l’inchiesta della Iene riguarda anche un altro mistero, quello della presenza di una terza statua acquistata da un mercante d’arte portata a Roma e poi venduta a compratori americani per una cifra stratosferica. Questa clamorosa testimonianza, rilasciata ad Antonino Monteleone da parte di un appassionato di archeologia romano, svela l’esistenza di un terzo bronzo di Riace trafugato all’epoca del ritrovamento delle statue e rivenduto ad un museo privato degli Stati Uniti. L’uomo dell’intervista ha spiegato di conoscere uno fra i mercanti d’arte più noti, che avrebbe trattato l’acquisto di una statua pregiata in bronzo proveniente dalla Calabria per 400 milioni di lire per poi rivenderla agli americani ad una cifra stratosferica. Se le dichiarazioni emerse dalle inchieste fossero reali la storia affascinante di una delle scoperte archeologiche più importanti di tutti i tempi, quella dei Bronzi di Riace, andrebbe riscritta da capo!

La casa dei Bronzi di Riace: il Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria

L’origine e la storia dello straordinario Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria sono strettamente collegate al Museo Civico, fondato nel 1882 e collocato nei locali del Palazzo Arcivescovile. L’iniziativa di creare il Museo Civico, divenuto nei primi anni dell’unificazione motore di attività di studio e centro di aggregazione, si deve ad un gruppo di artisti e studiosi fra cui il sindaco della città Fabrizio Plutino e lo Spanò Bolani, che fu il più grande promotore oltre che il primo direttore.

Dopo il terremoto del 1908 le amministrazioni comunali succedutesi si erano occupate della realizzazione di un edificio da destinare a museo in un’area prevista dal piano regolatore nel nucleo centrale della città. Importanti reperti riguardanti la storia greco-romana erano emersi dalle rovine e i danni ingenti subiti dal Museo Civico inducevano la creazione di un nuovo museo che custodisse i reperti provenienti da ogni parte della regione. Se alcune iniziative locali premevano per la costituzione di un Museo Civico, Paolo Orsi, Soprintendente Archeologico della Calabria dal 1907, mirava ad un museo nazionale che fosse piena espressione della Magna Grecia e custode di tutte le ricchezze archeologiche calabresi.

La posa della prima pietra nella sede attuale risale al 1932 ad opera del Soprintendente E. Galli che aveva seguito le orme di Orsi. Oggi, senza la sua caparbietà nel voler unire le collezioni civiche con quelle statali e senza gli immensi lavori di scavo condotti per 50 anni in Calabria, il Museo Archeologico Nazionale di Reggio non sarebbe lo stesso. La sua storia più recente racconta anni davvero rilevanti: nel 2009 chiude per ristrutturazione ed i Bronzi vengono trasferiti nella sede del consiglio regionale, palazzo Campanella, dove rimangono per 3 anni. Gli uffici del museo riaprono nel 2011 mentre dal 2013 è possibile visitarlo solo parzialmente accedendo alla sala che ospita i Bronzi di Riace. Ma è il triennio 2013-2016 a registrare una crescita esponenziale di visitatori grazie alla riapertura del museo rinnovato dalla ristrutturazione e dal nuovo allestimento.

Il museo di Reggio, che rientra fra i 20 musei statali resi autonomi dalla Riforma Franceschini, tocca cifre da record, da 11522 visitatori nel 2013 a ben 211318 nel 2016. Un anno decisamente positivo, questo, con una tendenza in salita considerando che solo nel mese di agosto si sono registrate mediamente 3000 presenze al giorno. La cultura dimostra di essere un traino per il turismo e la Calabria che, ricca di storia, tradizioni ma anche di enogastronomia e di luoghi mozzafiato, ha tutte le chance per emergere fra le altre regioni italiane.

Nel 2017 il museo sfiora i 215850 ingressi ma la nostra regione, con 8,1 milioni di presenze turistiche, si colloca al quindicesimo posto fra le regioni italiane dimostrando che il lavoro da fare, per valorizzare appieno tutte le sue risorse, è ancora tanto. Il trend in salita si conferma nel 2018 quando si superano i 220000 visitatori e soltanto i mesi estivi registrano 85663 ingressi con il picco di 45000 visitatori ad agosto. Il 2019 per il Museo di Reggio è un anno ricco di iniziative e successi e si superano i 227000 visitatori come emerge dai dati degli ingressi registrati nel gennaio 2020. Nei mesi successivi, dopo la riapertura al pubblico il 26 giugno, nel rispetto delle regole di prenotazione obbligatoria e di visite limitate in applicazione delle norme di sicurezza sanitaria e di prevenzione da contagio da Covid-19, il museo si conferma “il grande attrattore” turistico e culturale della Calabria: in un solo mese sono stati registrati circa 11000 ingressi, con una media di 330 visitatori giornalieri.

Le nuove regole anti-covid hanno, comunque, comportato una riduzione, rispetto al mese di luglio dell’anno precedente, del 40 % di visitatori e del 30 % degli incassi. Il principale attrattore culturale della provincia di Reggio Calabria è, senza dubbio, il Museo Archeologico Nazionale della Magna Grecia, uno dei più importanti d’Italia per la ricchezza del patrimonio custodito. Il sistema degli istituti culturali statali della regione si regge in buona parte sugli attrattori presenti nella provincia di Reggio Calabria ed i siti più visitati negli ultimi anni, dopo il museo di Reggio, sono la Cattolica di Stilo, la chiesa di san Francesco d’Assisi di Gerace ed il Museo Parco Archeologico di Locri.

Con il suo valore inestimabile il museo di Reggio è uno dei motori per la crescita sociale ed economica della regione e, grazie al co-finanziamento dall’UE, il progetto di ristrutturazione, ampliamento e riallestimento del museo è stato realizzato e, con questo, anche l’obiettivo di far diventare il museo polo di attrazione e di crescita culturale ed economica della città. La sfida più grande adesso è attivare strategie concrete ed efficaci per un piano di sviluppo turistico territoriale definito fra istituzioni e associazioni del tessuto economico. Il potenziale culturale insito nei Bronzi di Riace è altissimo ma è chiaro che non sono i bronzi ed il museo, da soli, a generare i flussi costanti dei visitatori, servono sguardi d’insieme sulle risorse storiche, ambientali e produttive oltre che azioni e progetti finalizzati a rendere più accogliente ed accessibile il territorio con infrastrutture, trasporti, politiche e servizi di accoglienza. I Bronzi di Riace sono il punto di partenza per una valorizzazione del patrimonio culturale regionale ed il museo si fa interprete di questa ricchezza con iniziative culturali capaci di valorizzare l’intero territorio ma serve un lavoro di rete fra siti archeologici e musei per costruire un sistema identitario rappresentato da beni culturali, paesaggi, parchi e riserve naturali, imprese culturali e creative.

Palazzo Piacentini e la sua storia

Dopo il Museo Archeologico di Berlino, quello di Reggio Calabria è il museo più grande al mondo per numero di reperti relativi al periodo della Magna Grecia. Inaugurato nel 1954, è stato riconosciuto tra gli istituti museali archeologici più prestigiosi d’Italia dopo l’istituzione delle autonomie operata dalla Riforma del 2014. Il Palazzo che lo ospita, uno fra i primi ad essere ideato, in origine, come museo, è un significativo esempio dell’architettura italiana del primo Novecento, progettato tra il 1932 ed il 1941 da Marcello Piacentini e inaugurato nel 1959 dopo una parziale apertura nel 1954. Collocato nel cuore della città, il museo si affaccia da un lato su Piazza De Nava e dall’altro sullo splendido lungomare “I. Falcomatà”. L’edificio, concepito da Piacentini in chiave moderna dopo aver visitato i principali musei d’Europa, è caratterizzato da un volume massiccio che lo rende monumentale.

Nel progetto esecutivo scompaiono alcuni degli elementi più innovativi presenti nella prima proposta progettuale: si elimina la curvatura a semicerchio generata dal cilindro dell’angolo tra Corso Garibaldi e via Romeo e, infatti, l’impianto iconografico assume la forma di un blocco quadrilatero chiuso e compatto. I muri portanti sono sostituiti da una fitta rete di pilastri in cemento armato, ai quali sono poggiate le pareti di vetro, che diventano vetrine continue dando vita ad un progetto espositivo chiamato “sistema piacentini”. La facciata su corso Garibaldi appare come un massiccio rettangolo di quattro piani in cui l’insieme delle finestre è interrotto solo dal portale monumentale caratterizzato da linee semplici.

Durante gli scavi di fondazione dell’edificio venne alla luce una necropoli ellenistica, come riportato nel giornale di scavo del 13 aprile 1933. Sulla facciata principale sono evidenti i bassorilievi in travertino realizzati da Antonio Bonfiglio e raffiguranti le monete delle colonie magno-greche di Poseidonia, Locri, Petelia, Sybaris e Hipponium, Heraclea, Tarentum, Caulonia, Velia e Thurium. L’ambiente culturale di Reggio Calabria nei primi anni Trenta, caratterizzato da modelli architettonici ereditati dall’Ottocento, non comprese immediatamente il linguaggio della “maniera razionalista” di Piacentini ma, nonostante le polemiche iniziali, il prestigio culturale della città di Reggio Calabria fu accresciuto fin da subito dalla presenza della nuova istituzione museale. Circa l’aspetto architettonico il progetto dell’edificio fu definito “di bellezza semplice ed austera, una creazione modernissima per un Museo di antichità e sul suolo italo-greco … “. L’edificio, negli anni, è stato oggetto di grandi trasformazioni come la creazione, nel 1981, della Sezione Subacquea, resosi necessaria per offrire adeguata visibilità ai famosissimi Bronzi di Riace.

Alla scoperta del Museo

Il nuovo allestimento, derivante dalla riqualificazione del Museo realizzata a partire dal 2009, risponde alle esigenze di un sistema museale complesso e ideato in base ai più moderni standard internazionali in quanto a sistemi multimediali e interattività. Questo intervento di ristrutturazione rappresenta un modello di riqualificazione architettonica di un edificio storico fra i più famosi esempi dell’architettura moderna italiana in cui un alto livello di adeguamento tecnologico ed un consolidamento strutturale si fondono con l’edificio originario mantenendone inalterati lo stile, l’imponenza e la solidità.

Si parte dalla accogliente ed ampia “Piazza Interna” dedicata al Soprintendente Palo Orsi e resa luminosissima dalla luce proveniente dal soffitto in vetro trasparente per arrivare allo straordinario Terrazzo panoramico che ospita gli eventi culturali del periodo estivo. L’affascinante percorso museale, che accompagna il visitatore in un viaggio attraverso i secoli, si estende su una superficie di 11000 mq e si snoda attraverso 4 livelli che raccontano, seguendo un ordine temporale e tematico, la storia della Calabria dalla preistoria all’età romana. La visita inizia, quindi, al secondo piano con la sezione A, un’ampia area dedicata alla Preistoria, protostoria ed alla età dei metalli: le tracce più remote della presenza dell’uomo in Calabria sono testimoniate dagli strumenti rinvenuti a San Pietro/Casella di Maida, prove preziose di una abilità manifatturiera di utensili relativi alla “cultura del Ciottolo”. Questo tipo di industrie identifica la fase più antica del Paleolitico inferiore in Italia e in Europa. La ricca sezione custodisce le tracce della prima presenza di Homo Erectus in Italia circa 1 milione di anni fa.

Dall’importante scoperta archeologica della Grotta del Romito di Papasidero provengono due scheletri sepolti insieme, risalenti al Paleolitico superiore (12000-11000 anni fa). Il museo ospita una copia della prima sepoltura rinvenuta e contenente due scheletri  in posizione supina legati da vincoli di parentela, come dimostra l’esame del DNA. Non lontano dalla stessa grotta è stato ritrovato un masso con una incisione datata 12000 anni fa del Bos taurus primigenius il cui calco è esposto al museo.

La sezione dedicata alla preistoria ospita tracce della prima presenza di Uomo di Neanderthal nella nostra penisola, in particolare i resti della mandibola di un bambino e un frammento di cranio sono stati rinvenuti a S. Francesco d’Archi a Reggio Calabria e a Iannì di Nicotera. Risalgono al Neolitico (da 12000 a 4000 anni fa) attrezzi come asce e coltelli usati nell’attività agricola. Selce e osso erano i materiali più usati per realizzare lame, punteruoli ed utensili per la concia ed il trattamento delle pelli o spatole per lisciare la superficie dei vasi. Il culto tipicamente neolitico della figura femminile è testimoniato fin dalle più antiche fasi da statuine fittili di donna simbolo di fertilità. L’esposizione di alcuni fra i primi esempi di forme vascolari illustra l’evoluzione delle tecniche di lavorazione della ceramica incisa, impressa e dipinta. Le decorazioni erano realizzate prima della cottura in modo che l’argilla fosse facile da modellare con le unghie o appositi punzoni.

Dal Neolitico medio la capacità di lavorare la ceramica si affina e la superficie risulta levigata e dipinta con motivi geometrici realizzati in colore rosso e nero. Alcuni vasi recuperati a Grotta S. Angelo recano incisi veri e propri segni ideografici che costituiscono un caso isolato nel Neolitico italiano rivelando una forma di pre-scrittura antichissima. Accanto alle ceramiche decorate ed agli oggetti in metallo dell’Età del Bronzo, una giara ritrovata a Trebisacce, in provincia di Cosenza, rappresenta l’esemplare più grande scoperto in Calabria nella seconda metà del II millennio a. C. Con la fine dell’età del Bronzo nelle pratiche funebri inizia l’uso della cremazione e le ceneri venivano raccolte in un’urna deposta insieme ad alcuni oggetti di corredo. Da Zambrone proviene una statuetta minoica in avorio, unica nel Mediterraneo occidentale.

Alla prima età del Ferro risalgono due coppie di bracciali in filo d’oro avvolto a spirale e ricca è la produzione di fibule o spille maschili e femminili e vari gioielli in bronzo oltre che oggetti femminili come unguentari o particolari trousse contenenti ancora residui di trucco. Si trova nella sezione B, il vero cuore della Magna Grecia: a partire dall’VIII secolo a. C., i Greci conquistarono la Calabria dando vita alla florida civiltà che passerà alla storia come “Magna Grecia”. Da questa terra deriva anche il nome “Italia”, infatti, col termine Italoi” i greci indicavano i “Vituli”, “abitanti della terra dei vitelli” ovvero il popolo che abitava la Calabria. Se, infatti, fino al V secolo a. C. il nome “Italia” indicava soltanto la Calabria, successivamente fu esteso prima a tutto il meridione e, dal 49 a.C., anche alle regioni settentrionali.

Lungo le coste dell’Italia meridionale i Greci fondarono moltecittà-stato organizzate secondo il modello ellenico della polis. Le più antiche colonie nate in Calabria sono Sibari e Crotone, le cui origini risalgono alla fine dell’VIII secolo a. C. Le monete coniate a Sibari raffigurano il simbolo della città, un toro con la testa rivolta indietro, e, insieme a quelle delle altre colonie magno-greche, decorano la facciata principale di Palazzo Piacentini. Dal Santuario di Timpone della Motta dedicato ad Atena ci sono pervenute molte riproduzioni di vasi. La monetazione di Crotone era caratterizzata da una grande varietà di soggetti, fra cui il tripode, simbolo dell’oracolo di Apollo a Delfi. Da S. Brancato di Tortora in provincia di Cosenza proviene uno dei documenti più importanti dell’epigrafia calabrese di età arcaica, una stele del VI secolo a. C. incisa e che riporta un testo religioso in lettere greche.

Medma, l’attuale Rosarno, fu fondata intorno alla fine del VII e inizio del VI secolo a. C. da coloni provenienti da Locri Epizefiri. Tensioni sociali dovute alla crescita demografica avevano spinto i locresi a cercare nuovi spazi agricoli sul versante tirrenico in una area strategica per il commercio e per il controllo delle vie di collegamento fra Jonio e Tirreno. Dalle aree sacre della città provengono un alto numero di statuette femminili raffiguranti Persefone e Afrodite e figure maschili che riproducono Hermes o Eracle, divinità connesse ai riti di passaggio. Dallo scavo della necropoli di Medma, avviato originariamente da Paolo Orsi nel 1914 e proseguito da P. E. Arias nel 1939, è emerso, fra gli altri materiali di corredo, un magnifico specchio in bronzo proveniente da una tomba in località Grizzoso e datato tra la fine del v secolo e gli inizi del IV secolo a. C., raffigurante sul manico un satiro che accarezza un efebo dormiente.

Da Hipponion, identificata con l’attuale Vibo Valentia nei primi anni del Novecento grazie alle indagini di Polo Orsi che ne individuò la cinta muraria ed alcune aree sacre, proviene il deposito votivo dedicato a Persefone, ricco di numerosi vasi in terracotta e offerte in bronzo appositamente frantumate per escludere il riutilizzo. La città fu fondata, secondo le fonti, alla fine del VII secolo a. C. da Locri Epizefiri e, nonostante i rapporti stretti dimostrati dai materiali rinvenuti, una guerra fra Locri e le sub colonie Medma e Hipponion termina con la distruzione di questa ed il suo territorio occupato dai locresi. Le arule, piccoli altari in terracotta spesso decorati in rilievo o dipinti ed utilizzati per il culto domestico provengono da Kaulonia mentre più di 30 preziose tavolette di bronzo incise che giungono da Locri offrono informazioni sulla storia politica ed economica della città.

Particolarmente importante, a Locri, è il culto per la dea Persefone alla quale venivano offerte piccole tavolette votive in terracotta, le Pinakes, realizzate in serie per mezzo di matrici e dipinte con colori accesi. Le tavolette venivano appese alle pareti del santuario e forse anche agli alberi del recinto sacro per poi essere spezzate, secondo il rituale, per evitare il riutilizzo. Rievocavano la vicenda di Kore-Persefone, protettrice, insieme alla madre Demetra, della fertilità della natura, dal rapimento da parte di Hades al matrimonio con lui che la trattiene con sé per sei mesi come regina degli Inferi permettendole di tornare sulla terra per i restanti sei mesi in modo da rinnovare il ciclo produttivo della natura.

Le tipologie più diffuse di ex-voto giunte dal Santuario della Mannella di Locri, dedicato a Persefone, sono le statuette in terracotta che spesso rappresentano la divinità mentre fra le offerte esclusive in bronzo emergono specchi ed armi preziose. Dal Santuario di Marasà proviene il celebre gruppo statuario dei Dioscuri posto a decorazione del tempio: il santuario di contrada Marasà è il più monumentale fra quelli esplorati a Locri Epizefiri in seguito agli scavi del 1889 di Paolo Orsi. In questa occasione vennero alla luce i resti della decorazione scultorea del frontone occidentale del tempio in marmo proveniente dall’isola di Paros: si tratta di due gruppi speculari e simmetrici, raffiguranti due giovani nudi, i Dioscuri, nel momento in cui scendono dai cavalli sorretti dai tritoni, figure mitologiche il cui corpo terminava a coda di pesce.

Le statue risalgono alla fine del V secolo o inizio del IV secolo a.C. e se il gruppo di destra è quello meglio conservato (nonostante la testa sia stata ritrovata molto più tardi nel 1956), quello di sinistra ha poche parti originali integrate con altre in gesso in seguito ad un restauro avvenuto all’inizio del 1900. Ai Dioscuri è stata affiancata un’altra statua, rinvenuta precedentemente e raffigurante forse una divinità marina, nella ipotesi che la composizione del gruppo venne realizzata per ricordare la vittoria dei locresi nella battaglia della Sagra durante la quale, secondo la leggenda, gli stessi Dioscuri combatterono a fianco dei locresi conducendoli verso la vittoria.

Nei pressi del teatro sorgeva un tempio dorico da cui proviene la scultura in terracotta di un cavaliere sostenuto da una sfinge e conosciuto come il Cavaliere di Casa Marafioti. Splendidi frammenti architettonici che provengono da Kaulonia hanno permesso di ricostruire parte del tetto del Tempio della Passoliera con la cornice scandita da numerosi gocciolatori  dipinti e modellati a forma di leone. Krimisa, l’attuale Cirò, fu fondata alla fine del VII secolo a. C. e gli scavi condotti hanno riconsegnato parte dei resti del Santuario dedicato ad Apollo Aleo ma anche una magnifica Statua acrolitica di Apollo rinvenuta nel 1929 nell’area archeologica di Punta Alice e raffigurante il dio greco Apollo protettore dei naviganti e dei mercanti di mare.

Molti altri sono gli oggetti votivi che testimoniano il culto del dio e fra questi spicca la preziosissima statuetta in oro che lo raffigura. I reperti provenienti dalla Necropoli e inerenti la vita quotidiana della Magna Grecia sono ospitati nella sezione C: fra gli aspetti che riguardano la vita quotidiana il teatro ellenistico di Locri occupa un ruolo importante e fra i reperti derivanti da quella area provengono molti ex-voto ed in particolare una statuetta di Afrodite Urania seduta in trono. La città di Locri era divisa in lotti destinati alle botteghe o abitazioni e sono pervenuti numerosi oggetti di uso domestico mentre altri manufatti in terracotta sono stati rinvenuti presso un quartiere dedito a queste produzioni. La necropoli di Metauros, Gioia Tauro, ha restituito circa 1500 tombe databili fra il VII ed il VI secolo a.C. La prima pratica funeraria prevedeva che le ceneri fossero raccolte in appositi contenitori ma dal VI secolo in poi l’inumazione sostituì la tecnica precedente.

Le ceramiche provenienti dalle tombe maschili della necropoli di Lucifero a Locri erano destinate al simposio così come gli attrezzi connessi all’attività atletica. Le sepolture femminili erano ricche di oggetti relativi alla bellezza ed il museo custodisce collezioni preziose di specchi in bronzo. Dalla colonia di Laos, l’attuale Marcellina in provincia di Cosenza, proviene un ricco corredo maschile che risale al IV-III secolo a.C. e i pregiati vasi da simposio e le armature sono testimonianze dell’alto rango sociale del defunto.  Uno splendido capolavoro di età ellenistica è la coppa in vetro con decorazione in lamina d’oro proveniente dalla necropoli di Varapodio (Oppido Mamertina) prova di un livello altissimo raggiunto dagli artigiani del tempo.

Appartiene alla stessa necropoli una magnifica coppia di orecchini in oro con la testa di antilope. Presso l’antica Taureana, Palmi, nella “casa del mosaico” risalente al II-I secolo a.C. è stato rinvenuto un mosaico pavimentale in piccole tessere policrome raffigurante una scena di caccia. Siamo finalmente a pianterreno nella sezione D che ospita, quasi al termine del lungo percorso museale, i due magnifici Guerrieri di Riace. Se la prassi vuole che i visitatori chiedano di poterli ammirare non appena varcano la soglia del museo, lo stesso abbiamo fatto noi scegliendo di iniziare proprio da loro!

Ma questa ricca area ospita anche i tesori del relitto di Porticello, le cosiddette Testa del Filosofo e Testa di Basilea, il Kouros marmoreo di Reggio Calabria e lo spazio dedicato alla storia di Reggio fino all’età Romana: molti dei reperti archeologici provengono da necropoli della città antica d’epoca greca la cui ricostruzione topografica è difficile perché la moderna città ha sepolto le tracce del suo passato. I resti della necropoli di Calanna, dove le sepolture a inumazione hanno restituito dei vasi tipici della fase che precede la colonizzazione, risalgono all’età del ferro. Reggio, grazie alla sua posizione strategica, faceva parte di una fitta rete di rotte commerciali ed i rapporti con gli etruschi sono testimoniati da tre esemplari di bucchero.

La produzione locale di vasi a figure nere e rosse, la ceramica calcidese, risale fra l’VIII ed il VI secolo a.C. e già dalla fine del VI secolo a.C. la città comincia a coniare monete. Una particolare prova della vita politica della città è rappresentata dalle sfere in terracotta con iscrizioni usate nei ballottaggi amministrativi. Accanto alle ceramiche di importazione a partire dalla seconda metà del V secolo a.C. in tutta la Magna Grecia si sviluppa una produzione di ceramica a figure dipinte in bianco, giallo e rosso e un esempio è il frammento di cratere con Eracle e Medusa. Dall’area sacra di località Griso-Laboccetta proviene un nutrito numero di statuette votive oltre ad una lastra a rilievo dipinto con scena di danza.  Una parte della sezione è occupata dalla “Reggio romana”: a partire dal II secolo a.C. si affiancò l’uso del latino come è dimostrato da una epigrafe in lingua mista. Per tutta l’età imperiale Reggio conservò la sua posizione strategica fra Oriente e Occidente con numerose testimonianze come le ceramiche africane diffuse fra il II ed il III secolo d.C. o le ancore in piombo e le anfore di diversa provenienza. Unico sia per le dimensioni che per la scena raffigurata è il Mosaico con scena di lotta in palestra, parte di un impianto termale del III – IV secolo a. C.

La Testa del Filosofo Nel 1969 alcuni pescatori di Villa San Giovanni hanno rinvenuto nelle acque di Porticello un piccolo giacimento archeologico sottomarino. Si tratta di una antica nave naufragata e purtroppo saccheggiata dai tombaroli fin quando una campagna subacquea organizzata dal Museo dell’Università della Pennsylvania ha permesso il recupero dei materiali superstiti. Gli scavi, iniziati nel 1970, hanno fatto emergere un relitto affondato probabilmente tra la fine del V e l’inizio del IV secolo a.C. Attraverso i resti dello scafo è possibile immaginare un’imbarcazione lunga circa 20 metri e con una stazza di circa trenta tonnellate che percorreva una rotta lungo la costa nord della Sicilia. Il carico comprendeva anfore di diversa provenienza e calamai per inchiostro oltre ad attrezzature per la pesca e vasellame da cucina usato dall’equipaggio. Ma la parte più interessante del carico era destinata probabilmente ad una fonderia della Magna Grecia e includeva piccoli lingotti e frammenti di statue in bronzo pronte per la fusione. Fra questi frammenti ce ne sono due particolarmente belli ed esposti insieme ai Bronzi di Riace: si tratta di due teste maschili, la Testa del Filosofo e la Testa di Basilea. La prima rappresenta un uomo anziano, caratterizzato da calvizie e dal naso aquilino, con la fronte aggrottata ed una lunga barba. L’arte greca raffigurava in questo modo i sapienti e gli intellettuali e per questo venne ribattezzato il Filosofo. Non si sa esattamente se costui rappresenti un pensatore o un letterato ma la minuzia dei particolari più caratteristici del volto come i tratti marcati, la barba lunga con le ciocche lavorate singolarmente e poi saldate e i leggeri riccioli applicati lungo il capo fa di questa testa un vero e proprio ritratto realistico. Il complesso dei materiali trasportati sulla nave ed in particolare un tipo di ceramica a vernice nera risalente al V secolo a.C. fa pensare che la Testa del Filosofo rappresenti il più antico ritratto greco finora conosciuto. Se alcuni studiosi hanno respinto la datazione del V secolo a.C. immaginando la possibilità di due diversi naufragi, altri ne confermano la data riscontrando similitudini con i Bronzi di Riace.

La Testa di Basilea

La Testa di Basilea prende il nome dalla città svizzera dalla quale fu acquistata illegalmente per poi essere restituita alla Soprintendenza archeologica reggina nel 1986. Si tratta di una testa virile dalla barba corta e dalla ricca capigliatura di riccioli coperti da una benda che reca un solco centrale. Le ciocche sono molto curate, la fronte è incavata e le labbra sono realizzate con del bronzo fuso a parte. Il volto ha una struttura lineare ed è caratterizzato dalla massima essenzialità e l’espressione austera che sprigiona è frutto dello stile del tempo. Sembra possa essere appartenuta alla statua di una divinità o di un sovrano ed esprime i modi artistici dello “stile Severo” tipici della prima metà del V secolo a.C. La varietà delle interpretazioni è dovuta a più fattori come la genericità della rappresentazione, la mancanza del corpo unita all’assenza di tratti iconografici specifici. Una prima possibilità è che ritragga Zeus o Poseidone vista la somiglianza con il profilo barbato di Zeus Eleutherios presente sulle monete di bronzo del IV secolo a.C. coniate a Siracusa. In alternativa si può riconoscere il vincitore di una gara atletica o musicale incoronato con una corona di foglie andata perduta.

Il Kouros di Reggio Calabria            

Il Kouros, rinvenuto nello studio di un ricco uomo d’affari, è stato confiscato ed è oggi uno tra i maggiori esempi di scultura in marmo del periodo arcaico. Potrebbe provenire da un santuario o da una necropoli ma le circostanze del rinvenimento permettono di fare solo qualche ipotesi. Il nome di questa splendida statua in marmo pario, purtroppo lacunosa, in greco significa “fanciullo” ed in archeologia indica un genere di statue maschili nude ed in posizione frontale con le braccia distese lungo i fianchi ed una gamba avanzata. Alta 90 cm (ma all’origine ne misurava circa 130) risale al 500 a.C. e, nonostante la provenienza del marmo dall’isola greca di Paros, potrebbe essere opera di uno scultore della Magna Grecia, forse di Reggio.  Le forme anatomiche del corpo sono sobrie mentre il dorso è più plastico, nel volto spiccano le labbra rialzate all’estremità come nel “sorriso arcaico”. La raffinata capigliatura di colore rosso-ruggine è rappresentata da quattro file di riccioli a chiocciola sulla fronte e sulle tempie, con ciocche ondulate e raccolte attorno alla nuca in una morbida treccia. Se inizialmente l’immagine è stata associata ad un giovane atleta e la statua ritenuta a carattere funerario o di culto, recentemente una nuova ipotesi intravede la raffigurazione di Apollo.

Il Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria è l’unico al mondo costruito su un sito archeologico, la necropoli ellenistica che venne alla luce durante la costruzione dell’edificio nel lontano 1932. La necropoli, che occupava l’attuale Piazza De Nava e si estendeva fino alla via Veneto, risale al periodo che va fra il IV ed il II secolo a.C. anche se la presenza di materiali molto antichi fa pensare alla sua origine in età classica. Sono circa 100 le tombe scavate, dalle più semplici alle camere in mattone con copertura a libro con tegole. Il piano interrato di Palazzo Piacentini, la sezione E ospita, oltre alla necropoli, anche due sale destinate alle esposizioni temporanee ed un lapidario i cui reperti provengono dal Museo Civico di Reggio Calabria e dai numerosi scavi condotti sul territorio.

In attesa della riapertura al pubblico del museo che, nel rispetto delle norme anti-covid, prevederà verosimilmente la prenotazione obbligatoria on-line attraverso il sito Koresrl.it, concludiamo il percorso con la consapevolezza che questo straordinario museo sia non solo il custode della storia più antica della Calabria ma anche la prima tappa alla scoperta di questa terra meravigliosa. Il mistero che ancora circonda una delle scoperte archeologiche più importanti di sempre, quella dei Bronzi di Riace, sembra accostarsi anche alla regione che li accoglie, una terra ancora poco conosciuta ma ricca di natura incontaminata e di biodiversità, di luoghi mozzafiato e di splendidi borghi antichi che racchiudono storia, arte, cultura e tradizioni.

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