Aung San Suu Kyi è stata per lungo tempo un’icona della democrazia e uno dei più importanti simboli a livello mondiale della resistenza pacifica contro l’oppressione.
La leader della Lega Nazionale per la Democrazia e presidente de facto del Myanmar dal 2015, tuttavia, negli ultimi anni ha visto offuscarsi la sua credibilità a livello internazionale a causa del genocidio operato dai militari nei confronti dell’etnia Rohingya e dal quale Suu Kyi non solo non ha preso distanza ma per il quale non ha neppure accolto gli appelli internazionali per porre fine ai soprusi e agli omicidi verso la minoranza musulmana del Paese.
Oggi la leader è stata di nuovo tradotta agli arresti a seguito del nuovo colpo di stato militare dello scorso 1° febbraio, ponendo ulteriori dubbi sull’efficacia dell’azione politica di Suu Kyi che nel disperato tentativo di salvaguardare quella che lei stessa ha definito una “democrazia debole” è scesa a compromessi che non sono stati comunque serviti a rinsaldare il processo di democratizzazione del Paese.
Chi è Aung San Suu Kyi
Egli contribuì a ottenere l’indipendenza della Birmania dal Regno Unito dopo anni di lotta politica che lo portarono ad essere assassinato nel luglio del 1947, appena pochi mesi prima dell’ufficializzazione dell’indipendenza che avvenne nel gennaio del 1948.
Anche la madre, Khin Kyi, era una figura di una certa importanza per i vertici del Paese, nel 1960, infatti, venne nominata ambasciatrice in India, impegno istituzionale che la portò a trasferirsi a Nuova Delhi con i due figli.
Nel 1962, tuttavia, l’esercito birmano organizzò un colpo di stato che pose a capo del Paese una dittatura militare. La giovane Suu Kyi che al tempo aveva solamente 17 anni non tornò in Birmania se non per qualche visita occasionale per i 28 anni successivi.
Dopo aver trascorso l’adolescenza a Nuova Delhi si trasferì nel Regno Unito e studiò filosofia, politica ed economia fino a ottenere la laurea a Oxford. Per un periodo lavorò per l’ONU a New York e nel 1972 sposò uno storico esperto di buddhismo tibetano, Michael Aris. Con lui si trasferì nuovamente ad Oxford dove la coppia ebbe due figli e trascorse per qualche tempo una vita tranquilla.
Aung San Suu Kyi, tuttavia, non smise mai di interessarsi della vita politica del suo Paese natio e l’attenzione si trasformò presto in senso di dovere; questo generò dapprima la redazione della biografia del padre per salvaguardarne l’eredità, ma presto si tradusse in un impegno più concreto nei confronti del Myanmar.
Quando la madre dei Suu Kyi si ammalò, ella ritornò nel Paese per accudirla e non poté rimanere cieca davanti all’impoverimento radicale che in Birmania era stato generato da 30 anni di dittatura militare.
Inoltre, i movimenti studenteschi insorgevano con grandi proteste e a partire dall’agosto del 1988 studenti ed operai uniti iniziarono a scendere in piazza per chiedere la fine della dittatura.
Le proteste vennero messe a tacere dai militari con una repressione particolarmente violenta che portò alla morte di centinaia (ma secondo alcune fonti migliaia) di persone.
Gli anni dell’impegno politico
Il primo discorso pubblico che Suu Kyi tenne avvenne il 26 agosto del 1988 a Rangoon presso il luogo più sacro del buddhismo birmano, la pagoda Shwedagon. Furono in centinaia di migliaia ad accorrere, si stima in 300 mila ascoltarono il discorso della leader che impugnava l’eredità del padre e lanciava la seconda lotta per l’indipendenza nazionale.
La natura pacifica del popolo birmano, l’ispirazione alle teorie della non violenza del Mahatma Gandhi e a quelle del movimento per i diritti civili di Martin Luther King rappresentarono le basi del suo intenso attivismo politico che condusse a un primo successo: il governo militare, infatti, cedette alle pressioni e annunciò le libere elezioni per l’anno venturo.
Le elezioni che si svolsero in piena libertà portarono alla maggioranza assoluta della NLD ma i militari ignorarono il risultato del voto.
Tra il 1989 e il 2010 la leader birmana trascorse oltre 15 anni in prigione o agli arresti domiciliari nella villa della sua famiglia a Rangoon; nonostante nel 1995 furono revocati gli arresti domiciliari ella rimase comunque in uno stato di semilibertà e non poté mai lasciare il paese perché in tal caso le sarebbe stato negato il ritorno in Myanmar.
Insieme all’attenzione internazionale di cui fu oggetto e delle numerosissime campagne per chiederne la liberazione, Suu Kyi ricevette i premi Rafto e Sakharov e fu anche insignita del Premio Nobel per la pace nel 1991.
Le prove che dovette superare in quegli anni furono chiara espressione della forza della sua incessante convinzione e del suo fervore politico: nel 1999 il marito Michael Aris che si trovava nel Regno Unito ebbe la diagnosi di cancro terminale ma il regime impedì che potesse raggiungere la moglie in Myanmar; la dittatura militare provò a liberarsi di Aung San Suu Kyi consentendo alla dissidente di raggiungere il marito a Oxford.
Sapendo che non sarebbe più stata in grado di ritornare in patria, si rifiutò di abbandonare il Paese e non le fu concesso di dare l’estremo saluto al marito che morì qualche mese più tardi.
Furono diversi i problemi di salute che costrinsero la stessa Suu Kyi al ricovero in ospedale, problemi che peggiorarono dopo l’attacco del 2003.
Il 30 maggio 2003, infatti, mentre la leader si trovava in un convoglio automobilistico con numerosi sostenitori dell’LND, alcune centinaia di persone collegate ai militari tesero un agguato e massacrarono circa 70 degli attivisti per la democrazia, e riuscì a salvarsi solo grazie alla prontezza di riflessi del suo autista.
Furono solo le elezioni suppletive del 2012 che le consentirono l’elezione in parlamento dove, dopo essere divenuta capo dell’opposizione, annunciò la propria candidatura a presidente per le elezioni del 2015.
Dall’aprile 2016 divenne Consigliere di Stato e agì come una sorta di presidente de facto del Paese.
“The Lady”, come viene chiamata dal suo popolo, non era comunque concesso diventare presidente poiché la Costituzione vieta a chi ha figli stranieri di essere capo di stato.
La controversa politica degli ultimi anni
Secondo alcune delle analisi più critiche il processo di democratizzazione del Myanmar non solo non è avanzato ma in alcuni casi ha portato a un peggioramento delle condizioni precedenti: la stampa sarebbe, infatti, diventata meno libera (molto noti alcuni casi di giornalisti arrestati per aver criticato i militari o per aver raccontato dei conflitti etnici) e anche l’utilizzo di internet sarebbe divenuto oggetto di una censura sempre crescente.
L’elemento più contestato dell’azione politica di Suu Kyi è stato certamente quello di aver dapprima taciuto e poi sminuito la persecuzione della minoranza Rohingya da parte dell’esercito.
Il Myanmar è un Paese a maggioranza buddista, che ha sempre considerato i Rohingya solo dei “bengalesi”, provenienti dal Bangladesh, arrivando dal 1982 a negar loro la cittadinanza, rendendoli di fatto apolidi nonché macchiandosi anche della negazione della loro libertà di movimento e altri diritti fondamentali.
Sotto accusa, in particolare, è una campagna militare condotta nell’agosto del 2017 nello Stato di Rakhine, sulla costa occidentale del Myanmar, che ha costretto 700mila persone a fuggire e ripararsi nel vicino Bangladesh. Sebbene sia il governo che i militari abbiano sempre respinto le accuse di atrocità, si parla di villaggi rasi al suolo e dati alle fiamme, migliaia di morti, stupri di massa, saccheggi e violazione sistematica dei diritti umani.
Suu Kyi, dapprima ignorò la crisi dei Rohingya e successivamente adottò la posizione ufficiale dell’esercito, che difendeva la propria azione in quanto definita come un’operazione antiterrorismo.
Si trattava di un atto di realismo compiuto dalla leader birmana che nel timore di minare il delicato equilibrio della neonata democrazia avrebbe approvato l’operato dell’esercito.
Sfortunatamente nel dicembre del 2017 fu negato anche l’accesso al Paese a Yanghee Lee, relatore speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani in Myanmar e persino a diverse Ong per fornire assistenza umanitaria. Alle diverse agenzie dell’ONU, alle organizzazioni umanitarie e a diversi governi non è rimasto che definire la persecuzione dei Rohingya come un vero e proprio genocidio.
Quando nel dicembre 2019 Suu Kyi venne chiamata a difendersi davanti alla Corte penale internazionale all’Aja dall’accusa di genocidio contro la minoranza musulmana, nel suo ruolo istituzionale, di fronte ai giudici della Corte di Giustizia internazionale così si pronunciò nei confronti dell’esercito: “Non si può escludere che i militari abbiano usato una forza sproporzionata. Ma il genocidio non è l’unica ipotesi”, e lo descrisse come un “conflitto armato interno”, giudicando le accuse come frutto di “un quadro incompleto e fuorviante della situazione nel Rakhine”.
Questi ultimi avvenimenti hanno minato fortemente la credibilità della leader democratica e hanno offuscato la sua immagine agli occhi dell’Occidente, tanto che, per la sua mancata azione, sono state ritirate numerose e importanti onorificenze che erano state conferite nel tempo a Suu Kyi, tra queste anche il premio Sakharov per la libertà di pensiero.
Gli ultimi avvenimenti: il colpo di stato militare del 1° febbraio 2021
La costituzione, infatti, protegge gli interessi del Tatmadaw (l’esercito birmano). Questa, infatti, prevede che il capo delle forze armate nomini il ministro della difesa, oltre a quelli degli interni e del controllo delle frontiere, inoltre, un quarto dei seggi del parlamento è riservato a funzionari militari in servizio.
Secondo un’iniziale interpretazione dell’Economist, il colpo di stato è stato determinato soprattutto dal volere del generale Min Aung Hlaing, che sarebbe dovuto andare in pensione quest’anno ma che, invece, nutriva ambizioni politiche personali e non accettava l’idea che l’esercito potesse perdere importanza in futuro.
L’esercito ha, tuttavia, definito le elezioni illegittime e ha arrestato la leader di fatto del Myanmar insieme ai suoi più stretti collaboratori, decretando l’entrata in vigore della legge marziale.
Oggi migliaia di birmani stanno scendendo in piazza per protestare contro il colpo di stato e le manifestazioni si sono concentrate soprattutto in tre città: Yangon e Mandalay, le più grandi del paese, e Naypyidaw, capitale e centro del potere dei militari.
La polizia ha usato i cannoni ad acqua per fermare la folla e non è stata effettuata ancora la conta dei feriti. La rivolta sta coinvolgendo strati molto diversi della società birmana dai medici, agli infermieri, dagli insegnanti agli studenti, a Yangon (ex Rangoon) stanno protestando anche decine di monaci buddhisti.
La giunta militare ha oscurato internet e disposto il divieto di assembramenti in numero maggiore a 5 persone, ma secondo l’ambasciatore Ue: “sarà difficile per l’esercito trovare la maniera di reprimerle senza l’uso della violenza.”
In un comunicato congiunto diffuso da Londra i ministri di Italia, Francia, Germania, Regno Unito, Stati Uniti, Canada e Giappone hanno affermato: “Siamo profondamente preoccupati per la detenzione di leader politici e attivisti della società civile, tra cui il Consigliere di Stato Aung San Suu Kyi e il presidente Win Myint, e per l’attacco ai media. Chiediamo ai militari di porre immediatamente fine allo stato di emergenza, ristabilire il potere del governo democraticamente eletto, liberare tutti coloro che sono stati ingiustamente detenuti e rispettare i diritti umani e lo stato di diritto.”
Sembra che abbia, dunque, pagato dunque due volte la leader birmana: dapprima perdendo la propria reputazione internazionale, così duramente conquistata con sacrifici personali inimmaginabili, nel tentativo di collaborare con l’esercito; e poi perdendo la propria presa anche sull’esercito stesso; poiché nonostante Suu Kyi abbia difeso l’indifendibile nel tentativo di aggrapparsi a una democrazia di carta, oggi viene ancora ritenuta nemica dei vertici militari e messa agli arresti senza nessun riconoscimento del suo tentativo di mediazione tra le esigenze civili del suo popolo e quelle di potere dell’esercito.