Niente è in grado di unire e al contempo dividere le comunità dei cosmologi e degli astrofisici quanto la costante di Hubble: se su di essa e sul fenomeno di cui è controparte teorica, ovvero il tasso di espansione dell’universo, si fonda la costruzione dell’intero modello cosmologico standard, tutt’altro che condiviso risulta ancora essere il consenso intorno al suo esatto valore, che differisce sensibilmente a seconda delle metodologie adottate per la sua midura. Uno studio condotto da un gruppo internazionale di scienziati, tra cui ricercatori dell’INFN, del Gran Sasso Science Institute e dell’INAF, apparso sulla rivista Astronomy & Astrophysics sembra oggi fornire una possibile spiegazione per la presenza di tali discrepanze, proponendo come nuovo metodo per la misura diretta della costante una valutazione delle distanze delle supernove di tipo ‘Ia’ (esplosioni di nane bianche in sistemi di stelle doppie), basata sulla fluttuazione della brillantezza superficiale (SBF) delle galassie ospiti. Oltre a trovare un tasso di espansione dell’universo compatibile con misure precedenti, la ricerca ha infatti messo in evidenza le differenze tra le distanze di supernovae calcolate facendo ricorso alla SBF e quelle calcolate grazie al confronto con riferimenti astronomici classici (candele standard) quali le variabili Cefeidi. Un aspetto che potrebbe indicare la presenza di proprietà astrofisiche ignote all’interno delle galassie oggetto delle misure dirette e quindi chiarire la tensione esistente tra queste ultime e il valore della costante di Hubble stimato attraverso la mappatura della densità del fondo cosmico a microonde residuo del big bang.
“Utilizzando un campione di 24 supernovae, tutte esplose in galassie la cui distanza è nota grazie a misure di SBF, per calibrare un più vasto campione cosmologico di 96 supernovae, il team ha ottenuto un valore per la costante di Hubble pari a 70,5 km al secondo per megaparsec “, spiega Nandita Khetan, ricercatrice del GSSI e autrice principale dello studio pubblicato su Astronomy & Astrophysics, “Questa stima si posiziona a metà strada tra il valore più recente ottenuto da misure di supernovae calibrate in modo classico con le Cefeidi (73,2 km/s/Mpc) e quello basato sulle osservazioni della radiazione cosmica di fondo del satellite Planck (67,4 km/s/Mpc)“.
Il risultato, compatibile con i valori estremi delle misure derivanti dai due metodi alternativi entro i rispettivi errori, mostra come la rispetto ai valori per la costante di Hubble ricavati grazie al ricorso alle variabili Cefeidi come riferimento delle misure potrebbe essere spiegata con differenze nella luminosità delle candele standard legate ai diversi tipi di galassie selezionate dai due calibratori: a spirale, nel caso delle Cefeidi, e prevalentemente ellittiche nel metodo SBF. La tensione nella misura della costante di Hubble potrebbe perciò nascondere la presenza di caratteristiche di interesse astrofisico ancora sconosciute. La luminosità delle supernovae potrebbe infatti risultare diversa a seconda dell’ambiente in cui è avvenuta la loro esplosione o della natura dei progenitori di questi corpi celesti.
Oltre a dimostrare l’efficacia dell’utilizzo di SBF nella calibrazione delle supernovae, il lavoro potrebbe quindi garantire importanti ricadute nei prossimi anni, che saranno contraddistinti dall’avvento del James Webb Space Telescope e il Vera Rubin Observatory, strumenti che consentiranno di misurare SBF a grandi distanze e di aumentare così il numero di galassie da usare nella calibrazione. Questo, insieme a studi dettagliati delle galassie che ospitano le supernovae ‘Ia’, “permetterà di far luce sull’eventuale presenza di effetti sistematici nascosti che potrebbero risolvere la tensione sulla costante di Hubble, oppure svelare inaspettate proprietà e importanti informazioni sulla natura astrofisica di quelle che oggi consideriamo le migliori candele standard” commenta Marica Branchesi, professoressa al GSSI, associata INFN e presidente del Consiglio Scientifico INAF.”
Definizione e misure della costante di Hubble
La scoperta, all’inizio dello scorso secolo, dell’espansione dell’universo da parte di Georges Lemaître e Edwin Hubble ha rappresentato uno dei più importanti successi della scienza contemporanea. Un risultato – spiega in un approfondimento l’INFN – che ha consentito di verificare l’ipotesi del Big Bang, ovvero dell’evoluzione del cosmo su larga scala a partire da uno stato iniziale contraddistinto da densità e temperatura elevatissime, e il modello teorico a esso associato. Da allora, la stima di questa espansione ha costituito il più esemplificativo ambito di ricerca dell’intera cosmologia, che già alla fine degli anni 20 del ‘900 era stata in grado di indicare valori approssimati sull’entità del fenomeno riferiti al vicino universo attraverso le misure dirette delle distanze di corpi celesti osservati mediante telescopio. Misure rese possibili dall’utilizzo di un metro di riferimento costituito da una particolare classe di stelle denominate variabili Cefeidi, contraddistinte da un costante periodo di variazione della luminosità, il quale consente di stabilire la loro posizione rispetto alla Terra. Nonostante la crescente precisione raggiunta da questo metodo grazie alle osservazioni effettuate dai telescopi spaziali, i valori per il tasso di espansione dell’universo così ottenuti continuano ad essere in contrasto con quelli ricavati in maniera alternativa e indiretta mediante il confronto tra le previsioni del modello cosmologico e lo studio dell’universo primordiale, di cui la mappa della radiazione cosmica di fondo rappresenta una fotografia. Questi ultimi sembrano infatti indicare un tasso di espansione dell’universo primordiale inferiore rispetto a quanto le osservazioni astronomiche stabiliscono per l’universo vicino, una discrepanza che potrebbe essere indicativa di errori nelle misure o della presenza di nuova fisica