L’arrivo della nuvola di cenere su Reggio Calabria, stamattina, non si è limitato a provocare una “pioggia nera” che ha ricoperto di nero il suolo reggino, ma ha anche fatto diminuire la temperatura di 2°C oscurando il sole e respingendo le radiazioni solari.
Molto si parla di quanto le eruzioni vulcaniche possono incidere sul clima: a Reggio Calabria oggi s’è verificato, molto in piccolo e per una porzione limitata di territorio, un episodio che accade a più grande scala quanto più grandi sono le eruzioni vulcaniche. Fino alle 10:50, infatti, splendeva il sole e la temperatura era di +17°C. Poi è arrivata la nuvola vulcanica e il cielo si è oscurato: alle 11:50 la temperatura era scesa a +15°C, per poi risalire di nuovo a +17°C alle 12:50 e raggiungere la massima giornaliera di +18°C alle 13:50, dopo che il sole era tornato a splendere e la nuvola vulcanica si allontanava verso nord/est. Emblematici i dati dei metar della stazione ENAV situata proprio all’Aeroporto reggino, il “Tito Minniti” (vedi immagine principale a corredo dell’articolo).
Quello di stamattina a Reggio Calabria possiamo definirlo l’effetto-Tambora sullo Stretto. L’eruzione del Tambora, infatti, ha provocato nel 1816 un’incredibile anomalia climatica in gran parte del pianeta (e in modo particolare Europa e Nord America) con freddo e maltempo fuori stagione al punto da provocare fame e carestie.
Il clima nel 1816 è stato infatti alquanto bizzarro. Proprio all’inizio di giugno si capiva che dal punto di vista climatico qualcosa non stava andando per il verso giusto, perché erano tornate le temperature fredde come se iniziasse l’inverno. Il cielo era quasi sempre nuvoloso. La carenza di luce solare era così rilevante che gli agricoltori hanno subito ingenti perdite (documentate) in termini di raccolto e la penuria di cibo è stata riportata in Irlanda, Francia, Inghilterra e Stati Uniti.
Moltissimi i giornali che hanno riportato le bizzarrie del clima, tra cui il Boston Independent Chronicle del 17 giugno 1816: ” Il 5 giugno c’è stata una mattinata calda, seguita da forti piogge nel pomeriggio, accompagnate da tuoni e lampi, con venti freddi da nord-est. Il 6, il 7 e l’8 giugno i fuochi nei camini delle nostre case erano molto gradevoli.“
Alla fine dell’estate, era chiaro a tutto che qualcosa di veramente strano stava succedendo. Il giornale newyorkese Albany Advertiser, ha pubblicato il seguente articolo: “Il clima dell’estate appena trascorsa è stato generalmente considerato fuori dal comune, non solo in questo Paese, ma, come risulta dai resoconti giornalistici, anche in Europa. Qui è stata arida e fredda. Non riusciamo a richiamare alla mente un tempo in cui la siccità sia stata così estesa, né quando (e se) ci sia stata un’estate così fredda. Ci sono state gelate in ogni mese estivo, qualcosa che non avevamo mai visto prima. C’è stato freddo in molte parti d’Europa e molte piogge in altri luoghi in quel quarto della Terra.”
Le polveri del Monte Tambora, hanno avvolto l’intero globo, e con la luce solare bloccata al di fuori di esso, il 1816 non ha avuto una estate “normale”.
L’eruzione del Monte Tambora
L’eruzione del Monte Tambora ha portato con sé morte e distruzione. Molto più imponente dell’eruzione del vulcano Krakatoa del 1883: quest’ultimo episodio ha avuto maggiore risonanza non perché fosse più distruttivo e terrificante, ma semplicemente perché la notizia della sua eruzione ha viaggiato più velocemente per via telegrafica, apparendo prima sui giornali. La notizia dell’eruzione del Monte Tambora ha raggiunto l’Europa e gli Stati Uniti mesi dopo. Soltanto nel XX secolo che gli scienziati hanno iniziato a capire che poteva esservi una connessione tra il Monte Tambora e l’anno senza estate.
Oggi sappiamo che quella terribile eruzione del 10-11 Aprile 1815 in realtà fu una vera e propria esplosione che cancellò 1300 metri di montagna e catapultò circa due milioni di tonnellate di detriti e particelle di zolfo negli strati più alti dell’atmosfera. Questi aerosol ridussero la radiazione solare sulla superficie terrestre, influenzando i fattori climatici a livello mondiale negli anni a seguire. Migliaia di persone morirono a causa degli effetti diretti dell’eruzione della durata di 4 mesi, che sprigionò nubi e gas velenosi, grandi flussi piroclastici e onde di tsunami. Nei dintorni del vulcano morì tutta la vegetazione e il terreno rimase avvelenato per anni. Migliaia di persone risentirono degli effetti climatici successivi, con disastrose conseguenze. Quasi tutto l’emisfero settentrionale, in un periodo climatico già fresco, registrò un ulteriore crollo delle temperature, mentre fame e carestie si diffusero nel mondo. Soltoanto svariati anni dopo venne pubblicato un resoconto dettagliato della catastrofe da parte dell’Asiatic Journal (1816-1829) dal governatore inglese di Indonesia e dal naturalista Sir Thomas Stamford Bingley Raffles (1781-1826) prima, e dal Lyell “Principles of Geology “(1850) successivamente. Andiamo a leggere i tragici momenti di quei giorni.
L’EVENTO DEL 1815 – “Isola di Sumbawa, 1815. – Nel mese di Aprile, una delle più spaventose eruzioni registrate nella storia, si verificò in provincia di Tambora, nell’isola di Sumbawa, a circa 200 km dall’estremità orientale di Java. Nel mese di Aprile dell’anno precedente il vulcano era stato osservato in uno stato di notevole attività, dopo aver eruttato ceneri sui ponti delle navi che navigavano davanti alla costa. L’eruzione del 1815 iniziò il 5 aprile, ma raggiunse la massima violenza tra l’11 e il 12, e non cessò del tutto fino a Luglio. Il suono delle esplosioni fu udito sino a Sumatra, alla distanza di 970 miglia geografiche in linea retta, e in direzione opposta alla distanza di 720 miglia. Su una popolazione di 12.000 residenti, in provincia di Tambora, solo ventisei individui sopravvissero all’evento. Turbini violenti portarono uomini, cavalli, bovini in aria, sdradicarono i più grandi alberi dalle radici, e coprirono tutto il mare di legname galleggiante. Grandi tratti di terreno furono coperti dalla lava, diversi flussi dal cratere raggiunsero il mare. La caduta di cenere fu così pesante che fece irruzione sino alle abitazioni di Bima, città sulla costa orientale dell ‘isola Sumbawa posta a 64 chilometri ad est del vulcano, rendendo varie abitazioni inabitabili. Sul lato di Java le ceneri arrivarono sino a 500 chilometri e circa 350 verso Celebes, in quantità sufficiente per scurire l’aria.
Le ceneri si depositarono per uno strato di circa 2 metri di spessore per diversi chilometri di estensione, attraverso il quale le navi si fecero strada con difficoltà. Il buio provocato durante il giorno sull’isola di Java fu così intenso, che rappresenta un evento unico nella storia, più buio anche delle attuali notti. Anche se la polvere vulcanica rappresenta un materiale impalpabile, diviene notevolmente pesante se compressa, tanto che all’epoca riferirono di un peso di ‘dodici once e tre quarti’. “Alcune delle particelle più fini – dice il signor Crawfurd – sono state trasportate alle isole di Amboyna e Banda, l’ultima a circa 1280 chilometri ad est dal sito del vulcano, anche se il monsone di sud-est era allora al suo culmine. Lungo la costa di Sumbawa e alle isole adiacenti, il mare salì improvvisamente di circa 3,6 metri, per poi successivamente placarsi. Anche se il vento era calmo, il mare avvolse tutta la riva e allagò le aree inferiori delle case, con acqua profonda circa 30 cm. Le barche furono sospinte verso terra e furono costrette all’ancoraggio. La città di Tambora, sul lato ovest di Sumbawa, fu inondata dal mare, che usurpò la riva in modo che l’acqua rimase definitivamente a diciotto metri di profondità in luoghi precedentemente non sommersi. Qui si può osservare che la quantità di subsidenza dei terreni era evidente, nonostante le ceneri. L’area coinvolta dagli effetti vulcanici fu di 1000 miglia inglesi di circonferenza, compresa tutta la Molucche, Java, una parte considerevole di Celebes, Sumatra e del Borneo. Nell’isola di Amboyna, nello stesso mese e anno, il terreno aperto eruttò acqua prima di richiudersi.
UNA CATASTROFE DI ENORMI PROPORZIONI – Anche in Europa rappresentò una vera e propria catastrofe. L’eruzione del 1815 è stata, a detta dei vulcanologi, una delle più potenti eruzioni vulcaniche almeno dalla fine dell’ultima Era glaciale; l’emissione di ceneri fu, quantitativamente, circa 100 volte superiore a quella dell’eruzione, pur rilevante, del monte Sant’Elena del 1980, e fu maggiore anche di quella della formidabile eruzione del Krakatoa del 1883. I morti registrati furono circa 60.000, deceduti tra l’eruzione vera e propria e il lungo periodo successivo di carestie conseguenti, dovute anche agli scarsi raccolti. Un evento del genere ai oggi attuali, provocherebbe una catastrofe di dimensioni ancor più maestose visto il numero di abitanti raggiunto sul nostro pianeta. Un evento, che speriamo, possa ripresentarsi il più tardi possibile.
IL MINIMO DI DALTON – Al vulcano si aggiunse un minimo storico dell’attività solare: il minimo di Dalton, che durò dal 1790 al 1830 circa, durante il quale si verificò una serie incredibile di grandi eruzioni vulcaniche. In quel periodo si ricordano le eruzioni del vulcano Soufrière, nei Caraibi, mentre l’anno prima fu il vulcano Mayon, nelle Filippine, ad entrare in attività. A questi vanno ricordate le eruzioni dell’Ula, tra i più letali in indonesia e del Suwanosejima nelle isole Ryukyu, in Giappone. La causa precisa del calo sotto media delle temperature, registrato durante il periodo del minimo, non è stata ancora ben capita, ma una delle tesi più accreditate afferma che, vista la concomitanza dei flare con le macchie solari, in questi periodi di minimo diminuisca anche l’energia emanata. Il vulcano Tambora se ne sta tranquillo nella zona di subduzione creata dal movimento della placca australiana verso una parte della zolla euroasiatica, ed è oggi costantemente monitorato dalle autorità competenti. Sono trascorsi 199 anni da quell’evento, ma ancora oggi il mondo ricorda le vittime di quella immane tragedia.