Femmine, cagne, direttrici d’orchestra: l’Italia (non) è un paese per Donne, ma comunque ‘Buon 8 marzo!’

Il 98% delle persone che hanno perso il lavoro da inizio pandemia ad ora sono donne: in un paese dove donna lavoratrice è un ossimoro la Festa della Donna diventa ipocrisia
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L’ipocrisia dell’8 marzo sta per cominciare. Ma attenzione, perché ad essere ipocrita non è la celebrazione in sé, che ha assolutamente ragione di esistere e guai se così non fosse. A stonare è l’atteggiamento dei tanti italiani che regalano mimose, cioccolatini, anelli e tanto altro, per poi tornare a fare ciò che hanno sempre fatto: trattare le donne come oggetti, come sguattere, come balie, come “tu pensa alla casa che a portare i soldi ci penso io“, come se fosse un obbligo e non una legittima scelta. O peggio ancora a picchiarle, a vessarle psicologicamente e a ricattarle moralmente ed economicamente. L’ipocrisia è anche quella di chi, avendo dei dipendenti, paga le donne il 25% in meno degli uomini. Così, senza un apparente motivo, anche a parità di lavoro e di produzione. L’ipocrisia, intendiamoci, è anche di molte donne: quelle che si lasciano strumentalizzare, che si lasciano snaturare, che non seguono la propria indole perché “questo è il mio ruolo e non posso fare diversamente“. Quelle che giudicano le altre per le scelte che fanno, che sia quella di fare la casalinga oppure di dedicarsi alla carriera togliendo un po’ di spazio alla famiglia, che sia quella di mettersi una minigonna oppure di vestirsi alla bell’e meglio, che sia quella di sposarsi o quella di restare single e non avere un partner fisso. L’8 marzo dovrebbe avere un motto: sii tutto ciò che vuoi essere, realizza te stessa come meglio credi e scegli. Scegli se vuoi essere moglie, se vuoi essere madre, se vuoi restare single, se vuoi fare carriera, se vuoi pensare solo a te stessa, se vuoi votarti alla famiglia e occuparti della casa, eppure se vuoi fare tutte queste cose insieme; ognuna di esse è una lecita e libera scelta, ma solo se fatta esclusivamente dalla donna stessa e da nessun altro.

Foto Ettore Ferrari / Ansa

In questi giorni in Italia sono ‘scoppiati’ due casi singolari che ci fanno comprendere, ancora una volta, quanta strada sia ancora necessaria prima che l’emancipazione femminile diventi una realtà. Passeranno ancora anni, forse tanti, prima di poter dire che alcuni squallidi stereotipi siano stati eradicati dalla nostra società. E in questo molte moderne pseudo-femministe non aiutano per niente. Il caso più eclatante riguarda Beatrice Venezi, Direttore d’orchestra al Festival di Sanremo che ha esplicitamente chiesto di essere chiamata ‘Direttore‘ e non ‘Direttrice’. Dopo le sue dichiarazioni, forti e coraggiose, c’è chi ha plaudito alla sua scelta e chi, insultandola, le ha dato della maschilista, dell’arcaica, dell’incoerente. E’ agghiacciante come, soprattutto quelle donne che si considerano paladine del femminismo, si siano scagliate contro Beatrice Venezi, solo perché ha avanzato una semplice, coerente richiesta. Le è stato contestato che la grammatica italiana prevede l’uso del termine ‘direttrice‘, ma sfido chiunque a non ammettere che si tratta di un termine con una connotazione talmente negativa che io stessa, donna, l’avrei rifiutata. E non solo. Il ruolo di Beatrice Venezi ha un nome ben preciso ed è “Direttore d’orchestra”. E’ maschilista? Solo per gli occhi e le orecchie di alcuni, e la prova sta nel fatto che le donne che assumono questo ruolo sono sempre più numerose. E se non vogliono essere chiamate direttrici, perché insultarle come se fossero le peggiori delle peccatrici? Non è un controsenso da parte di chi si auto-proclama femminista? Essere donna, come essere uomo, significa innanzitutto essere liberi di scegliere. E che scelta libera è quella che viene offesa e vilipesa?

A proposito di grammatica e nomi al femminile, un altro dei casi scoppiati in questi giorni riguarda proprio il termine ‘donna‘ e la definizione che ne fornisce la Treccani. ‘la Repubblica’ ha pubblicato nei giorni scorsi una lettera aperta indirizzata all’Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani per chiedere di eliminare i riferimenti sessisti che si leggono come sinonimo della parola “donna” della versione online del vocabolario. La missiva è stata firmata da circa cento persone, tra le quali Laura Boldrini, Michela Murgia, Imma Battaglia, ma anche un gruppo di attiviste guidate da Maria Beatrice Giovanardi, la stessa che ha ottenuto che l’Oxford Dictionary modificasse la definizione di “woman” dandone una versione meno sessista. Ecco di seguito la lettera pubblicata dal giornale online:

Lo sapevi che la versione della Treccani online (treccani.it) indica nel dizionario dei sinonimi, in riferimento alla parola “donna”, eufemismi come “buona donna” e sue declinazioni come “puttana”, “cagna”, “zoccola”, “bagascia”, e varie espressioni tra cui “serva”?

Con queste espressioni associate al concetto di “donna” trovano posto inoltre una miriade di esempi ed epiteti dispregiativi, sessisti, talvolta coraggiosamente definiti eufemismi: “baiadera”, “bella di notte”, “cortigiana”, “donnina allegra”, “falena”, “lucciola”, “peripatetica”, “mondana”, “passeggiatrice”, e molti altri.

Simili espressioni non sono solo offensive ma, quando offerte senza uno scrupoloso contesto, rinforzano gli stereotipi negativi e misogini che oggettificano e presentano la donna come essere inferiore.

Questo è pericoloso poiché il linguaggio plasma la realtà ed influenza il modo in cui le donne sono percepite e trattate.

Allo stesso tempo, l’uomo è definito come “essere cosciente e responsabile dei propri atti”, “uomo d’affari”, “uomo d’ingegno”, “uomo di cuore” o “uomo di rispetto”, etc…

Brilla per assenza qualunque espressione positiva che raffiguri la donna in modo altrettanto completo e aderente alla realtà, come per la definizione di uomo: donna d’affari, donna in carriera, etc…

Inoltre l’assenza sotto la voce “uomo” di parole quali “uomo violento”, “uomo poco serio”, “orco”, “ometto”, “omaccio”, “omuccio”, “gigolò” rischia di apparire come un’incongruenza, se non addirittura una discriminazione, a fronte del “dovere di registrare” e descrivere il “patrimonio lessicale italiano” che la Treccani rivendica nel giustificare le sue scelte.

I vocabolari, i dizionari dei sinonimi e contrari, le enciclopedie sono strumenti educativi di riferimento e la Treccani.it, in quanto tale, è consultata nelle scuole, nelle biblioteche e nelle case di tutti noi. Ed è anche una fonte linguistica italiana tra le più visibili.

Chiediamo cortesemente pertanto all’Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani S.p.A. che:

in prima battuta elimini i vocaboli espressamente ingiuriosi riferiti alla donna, limitandosi a lasciarli sotto la lettera iniziale di riferimento;
inserisca espressioni che rappresentino, in modo completo e aderente alla realtà di oggi, il ruolo delle donne nella società.
Ciò non porrà fine al sessismo quotidiano, ma potrebbe contribuire a una corretta descrizione e visione della donna e del suo ruolo nella società di oggi“.

Che dire? Se nel 2021 uno dei dizionari italiani più autorevoli descrive noi donne come ‘cagne’ e ‘serve’, non c’è direttore d’orchestra che tenga: il problema va ben oltre.

Io, donna e giornalista, non scriverò mai un articolo in cui parlo di ‘sindaca’, di ‘ministra’, di ‘assessora’, perché li giudico dei termini così forzati da non fare altro che ottenere l’effetto contrario e da non giovare minimamente alla causa. Il rispetto per la donna parte dal profondo, parte dalla mentalità, parte dalla società, non da un termine. Fatta eccezione, ovviamente, per i termini offensivi e sessualmente connotanti come quelli citati nella lettera alla Treccani.

Foto Ettore Ferrari / Ansa

La pandemia in corso ha enfatizzato ulteriormente questa abissale condizione delle donne in Italia: il 98% delle persone che hanno perso il lavoro da inizio pandemia ad ora sono donne. Il motivo? Semplice: se c’è da chiudersi in casa per il lockdown non è di certo l’uomo che può stare a casa con i figli. Tocca alla mamma. Come se mamma e lavoratrice fosse ancora un ossimoro e non un binomio.

Il regalo giusto, dunque, per la Festa della Donna, quale potrebbe essere? Tra moglie e marito è semplice quanto impensabile per molti: divisione dei compiti, complicità nelle scelte, mettersi sullo stesso piano, non ‘aiutare’ in casa ma collaborare alla pari. Ad una figlia, invece, per la Festa della Donna si dovrebbe regalare la consapevolezza: farle capire di essere libera, unica e potenzialmente indipendente. Ad una dipendente, per la Festa della Donna si potrebbe finalmente riconoscere il medesimo stipendio del collega, vicino di scrivania, che ha parità di lavoro percepisce una cifra più alta.

E poi, se ci scappa qualche mimosa e qualche cioccolatino, ben venga. Ma innanzitutto sono necessari rispetto e parità. Quella vera, però, non quella ipocrita.

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