L’11 marzo 2011, un terremoto di magnitudo 9 con conseguente tsunami ha gravemente danneggiato la centrale nucleare di Fukushima, in Giappone, provocando il surriscaldamento del combustibile nucleare, seguito dalla fusione del nocciolo all’interno dei reattori, a cui seguirono esplosioni di idrogeno ed emissioni di radiazioni. In questi giorni, sta facendo scalpore la decisione del Giappone di rilasciare in mare l’acqua radioattiva trattata e accumulata nella centrale in questi anni.
L’operatore della centrale, Tokyo Electric Power, ha raccolto circa 1,2 milioni di tonnellate di acqua in oltre mille cisterne sul sito. La manutenzione giornaliera della centrale di Fukushima, infatti, genera l’equivalente di 140 tonnellate di acqua contaminata, che, nonostante venga trattata negli impianti di bonifica, continua a contenere il trizio, un isotopo radioattivo dell’idrogeno. Circa un migliaio di serbatoi si sono accumulati nell’area adiacente all’impianto, l’equivalente di 1,25 milioni di tonnellate di liquido, e secondo la Tokyo Electric Power, le cisterne raggiungeranno la massima capacità consentita entro l’estate del prossimo anno.
L’operazione del rilascio in mare, anche se non è ancora stata decisa in maniera ufficiale, dovrebbe iniziare tra circa due anni, durante i quali l’operatore filtrerà le acque per eliminare gli isotopi nocivi e costruirà le necessarie infrastrutture. Il governo giapponese ha deciso per il rilascio in mare, nonostante la netta opposizione dell’opinione pubblica, dell’industria della pesca e dei rappresentanti dell’agricoltura locale.
Perché è una soluzione sicura
In realtà, nonostante le numerose critiche, il rilascio delle acque di bonifica radioattive in alto mare è la soluzione più sicura. “Molto rumore per nulla.” Sintetizza così il fisico Marco Casolino, ricercatore all’INFN all’Università di Roma Tor Vergata che da anni collabora con l’istituto RIKEN in Giappone, il clamore nato intorno alla decisione del governo giapponese. Casolino era in Giappone nel 2011 quando si è verificato l’incidente alla centrale di Fukushima e ha partecipato alle indagini sulle fuoriuscite radioattive, realizzando anche uno strumento per misurare le radiazioni nel cibo grazie a fondi della Japan Science Foundation.
Lo spazio per contenere l’acqua radioattiva sta finendo, nonostante sia stato ritardato al 2022 grazie alla costruzione di nuove cisterne. Il Ministro per l’ambiente giapponese, Yoshiaki Harada, “ha detto che sta finendo lo spazio per stoccare l’acqua e prima o poi bisognerà smaltirla in mare, cosa che si dice già dal 2013. In realtà però non è stata ancora presa alcuna decisione ufficiale, appunto per paura delle reazioni. Inoltre, anche se quell’acqua finirà davvero in mare, la contaminazione sarà irrilevante. E in ogni caso lasciare l’acqua lì non è una buona idea, perché se arrivano nuovi terremoti, cicloni o alluvioni si può disperdere. È già successo col terreno radioattivo rimosso dalla superficie per decontaminare l’area. L’hanno accatastato in giganteschi sacchi di iuta, ma qualche anno fa è arrivato un tifone che ne ha trascinato via una parte, disperdendolo di nuovo nell’ambiente”, spiega Casolino in un’intervista a Le Scienze.
Anni fa, una task force del Ministero dell’economia giapponese ha esaminato cinque opzioni per liberarsi dell’acqua: farla evaporare, rilasciare l’idrogeno in atmosfera in forma gassosa, iniettarla negli strati profondi del sottosuolo, conservarla in depositi sotterranei, o diluirla e scaricarla nell’oceano, giungendo alla conclusione che la soluzione migliore è proprio quest’ultima. L’idea è appoggiata dall’Agenzia internazionale per l’energia atomica (IAEA), dalla Nuclear Regulation Agency del Ministero dell’ambiente giapponese, e dalla Tokyo Electric Power Company.
L’idea è quella di diluire l’acqua per ridurre la radioattività entro standard di sicurezza accettabili – si parla dell’ordine dei 60.000 becquerel (Bq) per litro (un Bq è una disintegrazione di un nucleo al secondo) – e poi riversarla al largo nell’oceano, in tempi che vanno da 5 a una quindicina d’anni.
Ecco spiegato perché i rischi sono irrisori. Sia la quantità complessiva di trizio da smaltire sia le dosi giornaliere previste non superano quelle rilasciate da altri impianti nel loro normale funzionamento. Per esempio, in Francia l’impianto di lavorazione del combustibile esausto di La Hague rilascia ogni anno nella Manica 12.000 miliardi di Bq, circa dieci volte la radioattività di tutto il trizio stoccato a Fukushima. Le massime concentrazioni di trizio rilevate nella zona di La Hague sono state di 7 Bq al litro, e al largo di Fukushima i livelli previsti sono ancora inferiori, con stime intorno a 1 Bq al litro e picchi massimi di pochi Bq al litro, spiega Le Scienze. Inoltre, questi valori si scostano poco dalla radioattività da trizio già presente nel mare per effetto del fondo naturale e delle varie emissioni umane, e non superano quella di molti corsi d’acqua dolce. “Senza contare tutti gli altri radionuclidi”, aggiunge Casolino.
“Già nel 2013 avevamo calcolato che il cesio-137 e lo stronzio-90 dispersi dall’incidente di Fukushima, pur inquinando molto il mare negli immediati dintorni della centrale, avevano prodotto un aumento del tutto trascurabile della radioattività non appena ci si allontanava un po’. Nei primi 100 chilometri di mare davanti alla costa nord-orientale del Giappone le perdite hanno aggiunto meno di una parte su 100.000 alla radioattività già presente in natura con isotopi come il carbonio-14 e il potassio-40. Su tutto il Pacifico era meno di una parte su 100 milioni“, afferma l’esperto.
Il trizio, inoltre, è molto meno pericoloso: all’esterno del corpo è innocuo, mentre quello che beviamo, a differenza di altri radionuclidi, non si concentra nei tessuti ma per lo più viene eliminato con l’acqua. La sua tossicità resta incerta e i limiti ammessi nell’acqua potabile sono molto variabili: il più stringente è quello dell’Unione Europea, a 100 Bq al litro. Questo significa che l’acqua marina “contaminata” dal trizio a causa dello svuotamento delle cisterne di Fukushima sarebbe addirittura potabile in Europa.
Il problema dei pescatori
Oltre a non modificare i livelli naturali di radioattività, lo smaltimento in mare non porterebbe ad un accumulo di quantità significative di elementi radioattivi nei pesci. I pescatori giapponesi, tra coloro che più si sono opposti all’idea, temono però la diffidenza dei consumatori. Per il trizio, viste le scarse prove di tossicità, non sono stabiliti limiti nel cibo. In linea di principio, non c’è ragione di temere per la commestibilità del pesce. Dato che non si concentra nell’organismo, un livello di 1 Bq al litro nell’acqua corrisponderà a circa 1 Bq al chilogrammo nel pesce, si legge ancora su Le Scienze. Nonostante se ne discuta ancora, i calcoli eseguiti sotto le ipotesi più varie mostrano che l’esposizione equivalente resta largamente al di sotto anche degli standard di sicurezza dell’acqua europei.