Su gran parte dell’Europa orientale e in tutta l’Asia, la primavera si trasformò in estate e l’autunno fece posto all’inverno senza un giorno di sole. Come se ci fosse una tenda oscurante sul sole, milioni di persone nei Paesi più popolati del mondo si ritrovarono a vivere in condizioni di luce scarsa, respirando un’aria densissima e soffocante e perdendo quasi completamente i raccolti da cui dipendevano. Non è la trama di un film di fantascienza o di una serie tv distopica: è la descrizione dell’anno peggiore della storia in cui vivere, cioè dal 536 al 537 d.C..
Nella primavera del 536, un’eruzione vulcanica in Islanda innescò la Piccola Era Glaciale Tardoantica (PEGTA). E le sue conseguenze, oltre alle successive eruzioni nel 540 e nel 547, furono devastanti. “Gli aerosol delle grandi eruzioni vulcaniche hanno bloccato la radiazione solare, facendo calare il riscaldamento solare della superficie della Terra”, ha spiegato ad AccuWeather Michael McCormick, storico medievale dell’Università di Harvard, aggiungendo che un’analisi climatica dell’Università di Cambridge, condotta sugli anelli degli alberi, ha dimostrato che la temperatura media dell’estate “scese di 1,5-2,5°C nell’Eurasia”. I cieli rimasero oscurati fino a 18 mesi, secondo molteplici resoconti storici, dando origine all’anno di tumulti del 536.
Gran parte della comprensione degli scienziati degli impatti dell’eruzione islandese arriva dall’Historical Ice Core Project, una partnership tra l’Università del Maine e l’Università di Harvard, che McCormick ha guidato insieme al Prof. Paul Mayewski del Climate Change Institute. Utilizzando campioni di carote di ghiaccio dall’Islanda, il team ha tracciato una cronologia archeologica per determinare quando e dove si sia verificata l’eruzione vulcanica iniziale in Islanda. I suoi effetti furono diffusi e fatali. “Testimoni riportarono che il sole smise di spendere per 14-18 mesi. Il risultato furono diversi anni di mancati raccolti e carestie, che causarono migrazioni e disordini in Eurasia”, spiega McCormick.
La pandemia di peste bubbonica
Sulla scia delle eruzioni vulcaniche che alterarono il clima e dell’anno buio del 536, McCormick afferma che la situazione era fatalmente matura per lo scoppio della pandemia. Sebbene specifichi che una precisa relazione tra l’improvviso inizio della Piccola Era Glaciale Tardoantica e la pandemia debba ancora essere stabilita, McCormick spiega che “sembra probabile che, per esempio, la mancanza di cibo causata dall’improvviso raffreddamento in molti parti dell’Eurasia abbia indebolito le popolazioni e le abbia rese più suscettibili al patogeno”. Le carestie portarono quasi certamente a migrazioni di massa di persone che, in questo modo, portarono la malattia con loro.
“Il 536 fu solo l’inizio di un periodo molto duro. La pandemia, oltre all’improvviso raffreddamento, deve essere stata molto difficile. Oggi il COVID-19 è terribile, ma confrontate il tasso di mortalità per la peste bubbonica”, afferma McCormick, indicando l’1,8% del tasso di mortalità di oggi negli USA rispetto al 40-60% della peste bubbonica.
Molteplici eruzioni che hanno alterato la storia catturate nel ghiaccio
Mayewski, glaciologo dell’Università del Maine, ha dichiarato che il suo team è riuscito ad analizzare 2.000 anni di disastri naturali storici ottenuti da una perforazione di 72 metri in Islanda. Utilizzando un laser per tagliare frammenti di ghiaccio di 120 micron dalla carota, gli scienziati hanno potuto analizzare i picchi e i cali degli elementi in diversi momenti della storia per allinearli ai disastri che hanno contribuito a mettere insieme la nostra comprensione di ciò che ha plasmato il mondo in cui viviamo oggi. Nei campioni di ghiaccio della primavera del 536, la dottoranda Laura Hartman e il vulcanologo Andrei Kurbatov hanno trovato microscopiche particelle di vetro vulcanico, che corrispondevano alle particelle di vetro precedentemente trovate nei laghi intorno all’Europa e in un campione della carota di ghiaccio presa dalla Groenlandia. Kurbatov ha concluso che il mix disastroso di venti e meteo nel 536 deve aver guidato il pennacchio dell’eruzione in Europa ed Asia, creando una gelida cappa man mano che si estendeva la nebbia vulcanica.
Anche altri ricercatori credono che l’eruzione islandese del 536 abbia emesso una fitta cenere che si diffuse nell’emisfero nord, emettendo grandi quantità di solfati nell’atmosfera. Oltre all’eruzione, altri studi condotti di recente hanno suggerito che potrebbe esserci stato più di un vulcano responsabile delle tragedie di quel periodo.
Nel VI secolo, un altro vulcano che ha alterato la storia ha eruttato a circa 8.000km dall’Islanda, nell’America centrale, con un’esplosione vulcanica oltre 100 volte più forte di quella Monte Sant’Elena del 1980. L’eruzione è stata identificata a El Salvador dal vulcano dormiente Ilopango: oggi nella caldera vulcanica generata si trova un lago di 72km². Si tratta dell’eruzione più grande in America centrale che gli esseri umani abbiano mai visto. Si ritiene che la coppia di eruzioni catastrofiche si sia combinata per innescare gli anni di malattie, fame e tragedie del decennio successivo.
Il velo di polvere
McCormick spiega che man mano che verranno comprese meglio le registrazioni climatiche naturali e le ricostruzioni della PEGTA, gli scienziati saranno in grado di comprendere meglio come il velo di polvere abbia drasticamente cambiato il meteo in diverse parti dell’emisfero nord. “La Penisola Arabica, per esempio, potrebbe essere diventata un po’ meno secca, mentre l’effetto sembra più drammatico e negativo a nord del Mediterraneo”, aggiunge.
Anche se può sembrare difficile da credere, considerati gli ultimi 100 anni caratterizzati da Guerre Mondiali e numerose pandemie devastanti, McCormick ha dichiarato che quell’orribile periodo della storia non è stato ingigantito in maniera sproporzionata dai testimoni: “È stato un cambiamento molto drastico; è successo dall’oggi al domani”.