Cosa lega le eruzioni del Vesuvio al prodigio delle misteriose “croci” apparse nel 1660, fenomeno che spaventò molto le popolazioni che ne trassero presagi di sventura? A spiegarlo, in un approfondimento pubblicato sul blog INGVvulcani, è Massimo Russo, esperto dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, sezione di Napoli-Osservatorio Vesuviano.
L’augite, illustra l’esperto INGV, “è una specie mineralogica molto comune nelle lave delle eruzioni del Vesuvio. Si tratta di un silicato della famiglia dei pirosseni avente formula chimica (Ca,Mg,Fe)2Si2O6. Si presenta in cristalli di colore per lo più nero scuro avente comunemente habitus prismatico semplice, ma sono noti anche quelli più complessi, costituiti da più cristalli geminati e compenetrati tra loro“.
L’augite “si ritrova, solitamente, inglobata nella lava (Figura 1). Nella maggior parte dei casi, i cristalli sono rigettati già formati ed isolati durante le attività esplosive nella fase finale di un’eruzione, quando il magma “pesca” nel fondo della camera magmatica, poiché si tratta di un minerale “pesante”: ad esempio grandi quantità di cristalli liberi sono stati espulsi durante l’eruzione vesuviana del marzo del 1944 (Figura 2)“.
Il vulcanologo Antonio Parascandola, nel suo testo del 1972, osserva che “… nell’eruzione vesuviana del Marzo 1944 vi è stata una vera pioggia di cristalli liberi di augite la quale oltre alle comuni dimensioni … veniva fuori man mano di dimensioni sempre maggiori a misura che il magma veniva attinto dalle parti più profonde del suo serbatoio“. Uno di questi cristalli, prosegue russo, “aveva le straordinarie dimensioni di 7 x 4 cm. Recentemente l’autore di questo articolo è venuto in possesso di un campione isolato delle dimensioni eccezionali di 8.3 x 3.8 cm proveniente dai campioni vesuviani del Parascandola (Figura 3). Al momento, si tratterebbe del cristallo più grande rigettato dal Vesuvio. Si deve ricordare comunque che l’emissione di cristalli di augite è avvenuta in tantissime altre eruzioni precedenti al 1944“.
“Spesso l’azione dei gas fumarolici sulle lave altera parzialmente l’augite, che viene rivestita da una patina superficiale di “granulina” (opale – SiO2·nH2O) oppure, ma raramente, si decompone profondamente o totalmente in una pseudomorfosi di opale su augite (Figura 4)“.
L’eruzione del Vesuvio del 1660, di tipo stromboliano, “durò dal 3 al 16 luglio dello stesso anno. L’eruzione ebbe come osservatori Francesco Perrotta, un medico di Piedimonte d’Alife che esercitava la professione a Torre del Greco, che non solo descrisse il fenomeno, ma più volte ascese il cratere, e il matematico gesuita padre Giovanni Battista Zupo che si trovava in quel periodo a Napoli“.
A proposito dell’eruzione, Luigi Palmieri, direttore dell’Osservatorio Vesuviano nella seconda metà dell’Ottocento, riferisce: “In quest’incendio, che fu oltremodo strepitoso, per copia di fumo, di cenere (nera) e di pietre incandescenti spinte a considerevoli altezze, e per boati e muggiti che atterrivano gli abitanti dei circonvicini paesi, da obbligarli a fuggire (verso Napoli) per lo spavento, non pare che siasi avute lavi fluenti. Il fumo con la cenere e coi proiettili assunse la non insolita forma di pino, che si elevava a grandi altezze [4500 m, secondo autori come Alfano e Antonio Parascandola], e numerose folgori guizzavano in mezzo ai globi di densissimo fumo” (Figura 5). Ci furono danni, ricorda l’esperto INGV, “come i tetti sfondati dal peso della cenere e delle scorie accumulate ad Ottaviano, Palma Campania e Lauro. Alla fine dell’eruzione fu emessa cenere “bianca come la neve”, che padre Zupo interpretò come efflorescenze saline, ma che invece era costituita da frammenti di leucite. Proprio in questa ultima fase eruttiva accadde un fatto curioso: assieme alla cenere caddero dei piccoli detriti crociformi“.
Ma cosa sono queste “croci”? L’esperto INGV ricorda che Parascandola, citando un rarissimo lavoro di padre Giambattista (Giovanni Battista) Zupo del 1661, riporta: “Pochi giorni dopo l’eruzione del Vesuvio del 3 luglio 1660 ebbe luogo un fenomeno forse non verificatosi mai prima di tale epoca … fino al presente. Apparvero delle croci sulle vestamenta; e tale fenomeno generò non poca maraviglia … Comparvero doppo l’incendio del Vesuvio alcune Stelle, ovvero Croci sui pannilini, come sono maniche di camicia, in particolare delle donne, che le tengono più esposte all’aria, grembiali o faldiglie delle medesime, veli di testa delle monache, lenzuoli, massime nelle parti, che pendono fuori delle coltrici, collari de’ putti, tovaglie d’Altari, cotte di Chierici, camici, e simili … La loro forma … è varia; l’ordinaria è di una croce a due traverse che nell’intersezione s’ingrossano alquanto e poi nel fine s’aguzzano. Alcune sono sottili e perfette, altre grosse a guisa di macchie, alcune lunghe tre dita, altre mediocri, altre assai picciole; alcune in un lungo traverso ne congiungono due a guisa di caravacche, altre hanno tre sole braccia, altre un solo traverso …” (Figure 6, 7 e 8).
La Figura 6, precisa Russo, “mostra i vari tipi di macchie crociformi apparse nel 1660; in alto è raffigurato il passaggio della cometa Hevelius su Napoli il 6 febbraio 1661 (mesi dopo l’eruzione). Pur spiegando che si trattava di un fenomeno naturale, Zupo insinuava nei lettori il dubbio che potesse trattarsi di un prodigio. Calà lo rappresentò come un fenomeno soprannaturale.
I detriti cruciformi caddero a Torre del Greco, a Lauro, ad Ottaviano, a Nocera e finanche a Catanzaro e a Lecce, trasportate dal vento“.
Antonio Parascandola spiega così il fenomeno: “… le produzioni crociformi del 1600 … rappresentano con grande probabilità cristalli geminati di pirosseno allo stato ancora scheletrico, od anche, … molto sottili ed allungati” (Figura 9).
La spiegazione del fenomeno delle apparizioni delle croci, afferma l’esperto INGV, “è tuttora un mistero. Alcuni autori come Athanasius Kircher lo attribuiscono alla temperatura e ai minerali salini emessi durante le eruzioni. Arcangelo Scacchi, nel 1887 ipotizza possa trattarsi di un minerale di aspetto aciculare, la breislakite (ora vonsenite), altri dei capelli di Pelee. Tutte queste ipotesi comunque non hanno sostegno scientifico.
L’ipotesi proposta da Parascandola nel 1947 è per certi versi la più plausibile. In pratica i cristalli di augite espulsi nel corso dell’evento esplosivo sarebbero avviluppati di acido solforico e/o di cloruro di ferro deliquescente (molisite – FeCl3). I cristalli, rimbalzando sulle vesti stesse, avrebbero lasciato una macchia brunastra impressa su di esse. Il che sembra plausibile, senza scomodare nefasti segnali divini come quelli riportati da Padre Giovan Battista Alfano, sismologo e vulcanologo, nonché grande esperto di occultismo (Figura 10). Altra ipotesi potrebbe essere quelle di scorie avviluppate da acido solforico e sali deliquescenti che sulle vesti avrebbero rilasciato del liquido che poi si sarebbe propagato seguendo le trame del tessuto, ma questo non spiega il perché dell’unicità del fenomeno avvenuto esclusivamente nel 1660“.
In conclusione “si trattò di un fenomeno prettamente naturale, anche se non è chiaro il motivo per cui nel 1660 si formò tanta mole di cristalli di augite geminati a croce. Si può affermare che un simile habitus non è affatto comune nell’eruzione del 1944 dopo averne osservato circa un migliaio di cristalli (Figura 11). Questo habitus è invece relativamente frequente allo Stromboli (Eolie) e ai Monti Rossi (Etna),” spiega infine Russo.