Il tornado di Pantelleria, perchè non è un’anomalia: fenomeni tipici del clima d’Italia. I precedenti più drammatici

Perchè il tornado di ieri a Pantelleria non è un evento anomalo per il clima d'Italia: i precedenti più estremi e drammatici
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Il devastante tornado che ieri sera ha colpito Pantelleria provocando 2 morti e 9 feriti non è un’anomalia climatica: eventi di questo tipo hanno sempre colpito l’Italia, soprattutto nel Canale di Sicilia dove si trova appunto Pantelleria. Anzi. Proprio nell’estremità meridionale della Sicilia l’8 dicembre 1851, quindi 170 anni fa, si sono abbattuti i tornado più distruttivi della storia d’Europa. Quel giorno, infatti, due eccezionali trombe d’aria colpirono la Sicilia occidentale provenienti dal mare, fin sul litorale di Marsala dove si verificò il disastro: circa 500 morti, navi distrutte nel porto ed equipaggi annegati. I tornado, secondo le narrazioni dell’epoca, furono accompagnati da “torrenti di pioggia e grandine enorme“. Mai nessun tornado in Europa ha provocato così tanti morti. La storia della Sicilia è zeppa di tornado distruttivi e devastanti, anche ben più gravi rispetto a quello di ieri a Pantelleria.

Tornado Pantelleria

Grazie al contributo del geologo Giampiero Petrucci possiamo ripercorrere la storia dettagliata dei tornado italiani:

Il fenomeno atmosferico noto come “tromba d’aria” è un violento vortice d’aria, a forma di imbuto, che in genere si forma alla base di un cumulonembo e si allunga fino alla superficie terrestre. Per la sua formazione sono necessarie elevata umidità ed instabilità dell’aria: per questo è spesso associato a forti temporali. Generalmente si origina in corrispondenza della terraferma, ma se si sviluppa in mare prende il nome di “tromba marina”. In entrambi i casi il forte vento che accompagna questi fenomeni, con punte di velocità fino a 500 km/h, e che (a causa della forza di Coriolis) ruota in senso antiorario nell’emisfero boreale ed orario in quello australe, solleva e devasta tutto quanto trova sul suo cammino. Detti anche vortici o turbini, le trombe d’aria possono avere altezze fino a 1000 metri e diametri intorno ai 500 metri, possono percorrere decine di km e si dissipano spontaneamente. Sono caratterizzate dal colore grigio scuro, tendente in certi casi al nero. Vengono classificate sulla base della loro distruttività e, di conseguenza, in funzione della velocità del vento, passando dall’indice F0 a F5 (il valore più elevato, con velocità > 322 km/h). Tipiche degli Stati Uniti centrali, in particolare dell’Oklahoma, si sviluppano anche in Italia con una certa frequenza e distruttività. Nel nostro paese le aree più a rischio sono la Pianura Padana, il litorale tirrenico e laziale in particolare (Roma compresa), la Puglia e la Sicilia.

Si hanno testimonianze di trombe d’aria già presso gli antichi romani, prima di Cristo: ne parlano nei loro scritti Tito Livio ed Ossequente, con danni anche ingenti ai vari templi di Roma. Nel Medioevo si hanno notizie di violenti turbini a Venezia, con case scoperchiate, imbarcazioni affondate e centinaia di morti. Niccolò Machiavelli descrive una tromba d’aria che il 24 agosto 1456, originatasi in mare al largo di Pisa, passa sulla terraferma, portando distruzione nella Val d’Elsa ed a S. Casciano Val di Pesa in particolare, abbattendo numerosi alberi, danneggiando diverse chiese e provocando alcuni morti. Venezia e Roma sono nuovamente colpite tra ‘500 e ‘700, anche se i dettagli degli eventi sono talora poco attendibili.

Nell’Ottocento le notizie diventano più certe e particolareggiate. Il 10 settembre 1832 una tromba d’aria si sviluppa nella parte più meridionale della Puglia, iniziando a colpire la cittadina di Diso dove viene distrutta la chiesa di S. Sisinno (una vittima sepolta dalle macerie), per poi dirigersi verso nord-est, lambendo Cocumola (dove verrà istituito il culto della Madonna dell’Uragano per essere scampati al pericolo) e finendo la sua corsa su Otranto, arrecando numerosi danni e causando diverse vittime. 35 i morti totali. Il 7 ottobre 1884 un “ciclone”, come viene chiamato sui giornali dell’epoca, formatosi nella piana di Catania, in prossimità dell’attuale zona industriale, dirigendosi a nord, provoca distruzione nel capoluogo etneo (in particolare nei quartieri Cibali, Borgo, Ongina) e da Motta S. Anastasia fino al mare, percorrendo circa 25 km. Una trentina i morti. Due anni dopo situazione similare nella parte sud-occidentale del Lago di Garda. Il 14 maggio 1886, intorno a mezzogiorno, una tromba d’aria originatasi nei pressi di Lonato percorre circa 10 km verso nord, scatenando la sua furia su Lonato, Padenghe e Moniga prima di estinguersi sul lago. 5 i morti. Ancora più grave quanto accade il 21 settembre 1897 nel Salento ionico. Nel primo pomeriggio un vortice, formatosi in mare, tocca la terraferma a Torre dell’Ovo e, dirigendosi verso nord-est, in rapida successione colpisce le cittadine di Torricella, Sava, Oria e Latiano, percorrendo 36 km prima di scomparire. Il conto del disastro è ingente: ben 67 morti, 250 feriti e centinaia di costruzioni lesionate. I danni maggiori si sviluppano ad Oria dove si registrano 42 vittime e risultano semidistrutti il duomo, il seminario, il castello e numerose chiese. Il 30% delle abitazioni del paese rimane lesionato. Questo evento viene considerato di classe F4, dunque molto forte.

1910, il vortice che uccide: terrore tra le fabbriche

Altrettanto potente è il vortice che nel pomeriggio del 23 luglio 1910 colpisce la Lombardia centro-settentrionale, in particolare l’area a nord-ovest di Milano. Lo stesso capoluogo subisce effetti importanti: tetti scoperchiati, linea del tram interrotta, pali del telegrafo divelti, comunicazioni difficili. Anche per quest’ultimo fattore non si percepisce subito la gravità dell’evento che devasta l’industriosa provincia brianzola, il Varesotto ed il novarese. Ad essere colpite risultano soprattutto le numerose fabbriche della zona dove migliaia di operai sono al lavoro e rimangono sepolti dalle macerie provocate dalla forza del vento. Cadono difatti molti comignoli, camini e ciminiere che crollano sui tetti dei fabbricati, travolgendoli e schiacciando coloro che si trovavano al di sotto. Particolarmente grave quanto accade nella fornace di Solaro dove si contano 17 morti tra cui pure alcuni bambini che avevano cercato riparo nell’edificio. Risultano vittime anche negli stabilimenti Tornaini, Ferrovie Nord (1 morto), Lazzaroni (produzione dei famosi amaretti), Visconti di Modrone a S. Vittore Olona, cotonificio Cantoni a Legnano, filanda Foulet Freres a Galbiate, filanda Isacco a Maglio, Crespi a Vanzaghello (8 morti). Crollano pure le ciminiere del cotonificio Ottolini a Busto Arsizio, famose per essere le più alte della regione. A Saronno si verificano danni ingenti al gasometro, all’ospedale, al cimitero ma soprattutto alla fabbrica “Costruzioni Meccaniche”, tra le più grandi della zona, ed al santuario della Madonna dei Miracoli dove accade un fatto dai più giudicato straordinario: la statua della Madonna, strappata dal suo piedistallo e sollevata dal vento, si va a conficcare nel tetto, con la sola testa che spunta dalle tegole. Tale evento viene considerato dai fedeli come presagio dell’intervento mariano che avrebbe posto fine al disastro.

In effetti il turbine si interrompe spontaneamente dopo aver percorso una sessantina di km, ma il conteggio dei danni continua. Tra Saronno e Lomazzo, da Carugo a Giussano si rilevano centinaia di case scoperchiate. Nella campagna si vedono migliaia di alberi sradicati e pali della luce o del telegrafo distrutti. Al manicomio di Mombello si contano 10 morti, sorpresi all’esterno dalla furia del vortice. 10 vittime anche a Busto Arsizio, 2 nella parrocchia di Legnanello. Numerosi i paesi interessati dal fenomeno, con danni più o meno gravi: Castano Primo, Magnago, Meda, Seregno, Turbigo, Galbiate, Calolzio, Canegrate, Cermenate, Locate. Si segnalano danni anche in Piemonte, tra Cameri e Novara e perfino a Torino. Alla fine si conta una sessantina di vittime. Risulta questa la tromba d’aria con il tributo di vite umane più alto di tutto il Novecento. Un evento spesso dimenticato ma che invece dovrebbe far riflettere sulla potenza devastante della natura contro la quale l’uomo è spesso inerme.

Difatti, non a caso, la stessa Lombardia è interessata da un fenomeno analogo il 7 luglio 2001. L’area colpita è leggermente più ad est di quella del 1910, ma i danni sono comunque ingenti. Il vortice, classificato di intensità F3, si forma nei pressi di Concorezzo e percorre 7-8 km, investendo anche Arcore, Oreno ed Usmate Velate dove scoperchia il tetto della fabbrica Unimec prima di dissiparsi nell’area del parco di golf. Per fortuna è sabato e molti operai non lavorano, ma si rischia la catastrofe. Diverse auto vengono sollevate di netto e trascinate fuori strada, numerosi tetti risultano scoperchiati. Un centinaio di feriti e circa 150 sfollati per un fenomeno che conferma la Lombardia tra le zone più a richio per questo tipo di eventi estremi.

1930, l’estate delle trombe: Montello e Napoli

Il Veneto è sede privilegiata di trombe d’aria. A parte Venezia, più volte soggetta ad eventi atmosferici intensi, anche la terraferma è soggetta a fenomeni estremi. Le cronache riportano “cicloni” per tutta la seconda metà dell’Ottocento: nel 1867 viene colpita Vetrego, tra Dolo e Mirano, con il vortice che si esaurisce nella Laguna, dalle parti di Burano, dopo un tragitto quasi in linea retta verso est e lasciando sul terreno una ventina di morti. Nel 1892 è Polesella ad essere devastata, cinque anni dopo tocca ad Oderzo: in entrambi i casi si notano devastazione generale, case scoperchiate, alberi abbattuti e vittime.

Ma quanto accade il 24 luglio del 1930, intorno alle 13.30, quando s’è appena verificato il terremoto del Vulture, supera ogni disastro precedente e si presenta addirittura come la più grande catastrofe a seguito di un vortice atmosferico mai accaduta nel nostro paese, soprattutto per estensione geografica ed intensità se non per il numero delle vittime. La ricostruzione dettagliata di questo evento, troppo spesso dimenticato, si deve a Marino Parolin e Carlo Bazan, autori del docufilm “La tromba del Montello”, arricchito dalle testimonianze di chi allora era bambino. I testimoni sono tutti concordi: il cielo sempre più nero, il vortice sempre più vicino, il terrore che quasi immobilizza, la paura che rimarrà negli animi per sempre all’avvicinarsi di qualche nuvola più scura delle altre.

Il vortice si origina a nord di Bassano, si sposta velocemente verso sud-est ed investe Castello di Godego, per poi cambiare direzione repentinamente, attraversare Riese, Altivole, Montebelluna e piombare con la massima forza sul Montello. Continua quindi la sua folle corsa verso nord-est, giungendo a Nervesa, Susegana, Conegliano e Sacile fino a dissiparsi in vista del torrente Cellina. Un percorso di ben 80 km, con un fronte largo fino a 900 metri e velocità del vento di almeno 400 km/h il che lo fa classificare in categoria F5, la maggiore, e dunque unico fenomeno mai accertato in Italia di questa violenza.

Un “mostro” atmosferico che percorre 80 km in un’ora e venti, divorando ogni cosa sul suo cammino, portando immane devastazione nelle città e nelle campagne, non lasciando scampo. Particolarmente colpita Volpago del Montello e la frazione di Selva dove la chiesa, al cui interno si trovano diverse opere d’arte di valore, viene letteralmente squarciata: si salvano soltanto solo l’altare maggiore ed una porzione dell’abside. Il campanile, pur rimanendo in piedi, subisce una torsione evidente anche nelle foto d’epoca, una lesione talmente forte da richiedere il suo abbattimento perché troppo instabile.

La popolazione è atterrita e lo sarà a lungo: un uomo viene trascinato via dal vento, sollevato di peso al di sopra del muro di cinta della sua abitazione, per poi riuscire ad aggrapparsi con tutte le sue forze ad un robusto albero di gelso, salvandosi. Centinaia le case scoperchiate, con le suppellettili volate via ognidove. Un quadretto con una fotografia sarà ritrovato addirittura in Friuli e riportato, dopo mesi, alla proprietaria. Innumerevoli gli alberi sradicati, i pali divelti, gli animali trascinati via. Pesante il bilancio delle vittime: 24 morti, un centinaio di feriti per un evento che ha segnato profondamente quei luoghi e quelle comunità e che deve assurgere a paradigma di come anche il nostro paese sia soggetto a fenomeni atmosferici estremi.

Tant’è vero che quella del 1930 passerà alla storia come “l’estate delle trombe”. Difatti appena 20 giorni dopo il disastro del Montello, in una Napoli ancora prostrata dal grande terremoto del Vulture, arriva altra devastazione. All’alba del 14 agosto un violentissimo temporale, con nubifragi che allagano le strade, si abbatte sulla città partenopea. La pioggia è accompagnata da un vento forte ed insistente che intorno alle 6.45, improvvisamente, si trasforma in un potente vortice, originatosi in mare e capace di arrecare gravi danni nella zona di Poggioreale, in particolare nell’area del nuovo mercato agricolo, in quel momento molto affollato di commercianti e compratori. Le logge del mercato sono divelte dalla violenza del turbine che provoca la caduta di un muro altro tre metri sotto il quale rimangono uccisi una contadina, venuta appositamente in città per vendere i suoi prodotti, ed il giovane figlio. Altre due vittime verranno poi ritrovate sotto le macerie del mercato, letteralmente distrutto, mentre i feriti, alcuni dei quali sofferenti per la calca causata dal fuggi-fuggi generale, saranno un centinaio. La tromba d’aria si sposterà poi verso Ponticelli, arrecando altri danni prima di esaurirsi alla fine di un percorso durato circa 5 km.

Negli ultimi 90 anni il è comunque il Veneto a confermarsi tra le aree più soggette a turbini del nostro paese: in questo periodo si contano infatti una ventina di fenomeni nella regione tra i quali perfino due eventi “montani”, Enego nel 1983 e Farra d’Alpago nel 2007, veramente rari perchè in genere i vortici si formano e viaggiano soprattutto in pianura. In quello stesso 1983 si compie un’altra tragedia, per la precisione il 2 agosto, quando a Zenone degli Ezzelini due operai rimangono uccisi dal crollo del capannone in cui stavano lavorando, a causa di una tromba d’aria. Ritorna pure un “estate delle trombe”: nell’agosto del 2004 ben tre eventi si susseguono in rapida successione a Montecchio Precalcino, Bertesina e Caorle, fortunatamente con molti danni ma senza vittime. In Veneto si sviluppano pure diverse trombe marine come quella che il 3 giugno 2016 porta distruzione a camping e stabilimenti balneari di Chioggia. A Napoli invece si ricorda solo un evento importante: il 28 settembre 1978 un vortice provoca il crollo di alcuni muri, scoperchia case, solleva auto e percorre 4 km prima di esaurirsi: solo qualche ferito.

Questo elenco non è, e non vuole essere, certamente esaustivo ma basta a testimoniare quanto nel nostro paese le trombe d’aria non siano poi eventi così rari come molti ritengono. La natura, a volte, si prende la rivincità su un’umanità che spesso la trascura.

1970, morte a Venezia

Non esiste al mondo una città come Venezia. La tradizione vuole che sia stata fondata nell’anno 421 da alcuni profughi di Aquileia scampati alle scorribande dei barbari e rifugiatisi nelle isole della laguna, difficili da raggiungere per i guerrieri a cavallo. Costruita direttamente e letteralmente sull’acqua, Venezia da sempre ha trovato proprio nell’acqua la sua fonte di vita, gloria e ricchezza. Nella sua storia millenaria però la città è stata soggetta più volte a disastri naturali, primi fra tutti gli eventi atmosferici estremi. Senza dimenticare ovviamente il particolarissimo fenomeno del’acqua alta di cui riparleremo più avanti. Qui vogliamo invece occuparci di altri fenomeni, altrettanto particolari ed ancor più deleteri per le infrastrutture ed i cittadini: le trombe d’aria.

Alcuni libri antichi, tra cui il prezioso “Memorie per servire alla storia letteraria e civile” di Francesco Aglietti, edito nel 1793, narrano di “cicloni” che investono Venezia già nel Medioevo ma dei quali si hanno notizie scarse e poco attendibili. Più certo il turbine che devasta la Serenissima nell’agosto del 1657: il monastero di Santa Maria Maggiore è praticamente raso al suolo, l’Arsenale subisce seri danni, molte inbarcazioni sono rovesciate e addirittura si tenta di fermare il vento con…cannonate (sic). L’evento viene considerato di intensità F2 come la tromba marina che percorre l’intera laguna nel 1708, provocando la morte di 4 pescatori. Nel 1824 un altro fenomeno atmosferico violento colpisce le isole di S. Michele e Murano, con gravi danni.

Ma l’evento che più di ogni altro rimane nella memoria dei veneziani accade l’11 settembre del 1970. Quel giorno si verificano particolari condizioni atmosferiche, con un fronte freddo di origine polare che, varcate le Alpi, entra in Pianura Padana, scontrandosi con l’aria calda subtropicale, di stampo prettamente estivo, stagnante al suolo. Ciò provoca il formarsi di forti precipitazioni generate da un intenso sistema temporalesco all’interno del quale, intorno alle 20.45 di sera, si sviluppa una tromba d’aria, anzi un vero e proprio tornado di stampo “americano” data la sua persistenza spazio-temporale che risulterà, come vedremo, eccezionale.

Il turbine si genera sui Colli Euganei, tra Teolo e Rovolon: la sua forza è fin da subito devastante, scoperchia case, abbatte alberi e provoca un morto. Procede quasi in linea retta, in direzione all’incirca sud-ovest/nord-est, su un fronte di almeno 100 metri e con velocità del vento che superano i 220 km/h. Per questo sarà classificato di categoria F4, dunque un evento piuttosto forte. Nel suo incedere impetuoso sfiora Padova, passando nella sua periferia meridionale (Abano, Albignasego) e prosegue la sua corsa verso oriente: alle 21.15 è a Vigonovo, alle 21.23 a Dolo. Numerosi in queste cittadine le case lesionate ed i feriti. Gli orari di passaggio sono stati ricostruiti grazie alle numerose testimonianze che hanno permesso di stabilire pressoché esattamente le caratteristiche di questo fenomeno estremo, diventato ancor più violento avvicinandosi a Venezia, riprendendo probabilmente vigore dall’umidità delle acque lagunari.

Dopo aver provocato danni anche a Mira, alle 21.27 la tromba d’aria è a Fusina, praticamente sulla riva del mare, alla foce del Brenta: devasta un campeggio, sollevando tende e roulottes, abbattendo oltre duemila alberi e diversi tralicci, provocando un’altra vittima. Quindi entra in mare e raggiunge Venezia, sfiorando a sud l’isola della Giudecca ma centrando in pieno l’isola delle Grazie e l’ospedale omonimo, ricovero per i pazienti affetti da malattie infettive, il cui tetto viene completamente asportato. Ulteriormente rinvigorito dal trovarsi sul mare, il tornado penetra nel bacino di S. Marco dove alle 21.36 si compie la tragedia più grande. Nei pressi dell’isola di S. Elena sta navigando un vaporetto, identificato dal numero 130, che sta svolgendo il suo normale lavoro di traghettamento. La barca viene letteralmente capovolta dalla furia del vento e va a fondo nel giro di pochi minuti. A bordo vi sono circa 50 persone tra passeggeri ed equipaggio. L’acqua penetra all’interno e sono immaginabili le scene di panico conseguenti. 21 sfortunati non ce la fanno, annegano. Gli altri si salvano a stento, trovando fortunosamente una via d’uscita, nuotando nel buio, aggrappandosi ai relitti, raggiungendo la vicina riva dell’isola dove sono subito aiutati. L’intera zona cicostante è devastata: il famoso cantiere Celli non esiste più, lo stadio “Penzo” subisce gravi danni (i seggiolini della tribuna finiscono in mare), il collegio navale “Morosini” è fortemente lesionato, con gli allievi che escono immediatamente a portare i primi soccorsi ai naufraghi; non si contano le case scoperchiate. “Una roba mai vista”, è il commento di tutti.

Ma purtroppo non finisce qui. Cinque minuti dopo il tornado arriva sul Lido, fortunatamente nella sua parte più settentrionale, la meno popolata. Anche qui provoca danni, con edifici scoperchiati ed alberi abbattuti. Nell’aeroporto di S. Nicolò diversi aerei vengono rovesciati, sollevati, semidistrutti. La sottile striscia sabbiosa del Lido è l’ultima terra prima del mare aperto, ma il turbine devia leggermente verso nord ed alle 21.41 tocca Punta Sabbioni ed il Litorale del Cavallino, in terraferma. Qui si abbatte con furia estrema sul campeggio “Vianello” di Cà Savio ed è un’altra tragedia. La struttura viene difatti rasa praticamente al suolo, con auto sollevate e trasportate fino a 500 metri di distanza: alcune saranno ritrovate perfino in mare. La pinetà non esiste più, la devastazione è totale, con scenari simili a quelli di un bombardamento a tappeto, come testimoniato anche dalle foto scattate la mattina seguente. 12 i morti in questa località.

Finalmente il vortice oltrepassa il litorale, sbocca in mare aperto e si esaurisce nei pressi di Jesolo. Il bilancio è pesantissimo: 36 morti, almeno 500 feriti, danni per oltre 5 miliardi di lire. Tutto questo dopo aver percorso una settantina di km in poco più di un’ora. Risulta dunque, certamente, la tromba d’aria che ha provocato il maggior numero di vittime in Italia negli ultimi 60 anni. Ma ciò che è ancor più eccezionale pare lo sviluppo, la forza, le caratteristiche di questo fenomeno estremo che, pur risultando unico per le conseguenze, non rimane isolato.

Il 12 giugno 2012, intorno alle 11 di mattina, l’evento si ripete, sia pure in proporzioni più ridotte, a dimostrazione comunque di come Venezia e la Laguna siano soggette alle trombe d’aria. Col cielo divenuto improvvisamente scuro, un vortice colpisce di nuovo l’isola di S. Elena dove scoperchia alcuni edifici, compresi una chiesa e la biglietteria dell’Actv, l’azienda di trasporto pubblico. Danni anche sull’isola di S. Servolo, alla Certosa ed al Lido, ma la zona più colpita risulta l’isola di S. Erasmo, “l’antico granaio” di Venezia dove esistono comunque ancora diverse aziende agricole che subiscono i danni maggiori: le colture di stagione vengono difatti praticamente strappate dal terreno, distrutte vigne e serre, abbattuti alberi secolari come il famoso bagolaro, la più vecchia pianta dell’isola coi suoi oltre 150 anni di vita. Alla fine nessun ferito ed una trentina di imbarcazioni danneggiate per un altro evento distruttivo che colpisce l’impareggiabile Venezia e la sua splendida Laguna, un ambiente sempre più in difficoltà causa l’aumento dei fenomeni climatici estremi cui nessuno sembra in grado di porre rimedi sicuri.

I tornado più estremi della storia recente in Sicilia

Nel tardo pomeriggio di mercoledì 14 agosto 2013, intorno alle ore 18, un violento tornado ha interessato le campagne della Sicilia centrale, tra Enna, Agira e Catenanuova. S’è trattato di un tornado gigantesco, probabilmente classificato come F2 sulla Scala Fujita, che ha destato lo stupore di tantissimi siciliani increduli di fronte alle fotografie che abbiamo pubblicato a testimonianza dell’evento. In realtà non bisogna sorprendersi più di tanto: eventi meteorologici di questo tipo non sono certamente all’ordine del giorno in Sicilia, ma si verificano abbastanza spesso nel corso degli anni, soprattutto nei mesi estivi e autunnali quando ci sono i maggiori contrasti termici e l’energia è tale a causa del gran caldo presente ai bassi strati.
Il 17 giugno 2004, ad esempio, quindi poco più di 9 anni fa, un tornado molto simile si è verificato nella stessa zona ma, a differenza di quello di due giorni fa, ha colpito l’autostrada A19 provocando danni e disagi gravissimi. A ricordarci l’evento è stato un nostro lettore, Francesco Guagliardo, che a differenza dei tanti che – con la memoria corta – si sono affrettati ad etichettare l’evento di due giorni fa come un “fenomeno eccezionale provocato dai cambiamenti climatici” o addirittura “dagli americani cattivi che alterano volutamente il clima provocando eventi estremi per distruggere la Sicilia“, ci ha ricordato l’esperienza di nove anni fa: “a me personalmente capitò la stessa cosa, a differenza che il fenomeno interessò anche l’autostrada e tutti i mezzi presenti. Ricordo con precisione il paesaggio spettrale in quanto gli alberi e la vegetazione furono letteralmente distrutti. Non si tratta di un fenomeno isolato, ma secondo me in quella zona precisa si creano situazioni particolari“. Infatti proprio quella è una delle zone più calde della Sicilia. Il piccolo comune di Catenanuova è noto al mondo intero per detenere alcuni tra i record europei di temperatura più elevata, superiori ai +48°C, e arriva a superare i +35°C con una facilità estrema anche quando a Palermo e Messina le temperature si mantengono gradevoli e inferiori ai trenta gradi. E’ la zona della Sicilia con il clima più continentale, senza gli effetti delle brezze marine, dove finisce la piana di Catania e iniziano i primi dolci rilievi collinari tra la provincia catanese e quella di Enna.

Il 17 giugno 2004 sull’autostrada, tra Gerbini e Agira, fu davvero un inferno. Almeno cinque mezzi pesanti, tra i quali un autobus della polizia di Stato che stava trasportando alcuni immigrati egiziani a Catania provenienti da un centro di accoglienza di Caltanissetta, sono stati ribaltati dalla furia del tornado e cinquanta vetture sono rimaste coinvolte in incidenti a raffica provocati dalla tromba d’aria.
Il tornado ha scaraventato sulla carreggiata anche grossi tronchi d’albero, divelti. Ci furono 11 feriti, tra cui otto poliziotti. Tre agenti sono stati trasportati in ospedale con un elicottero del 118. Sul posto sono intervenute otto pattuglie della Polstrada. L’A19 è stata chiusa al traffico per diverse ore. Sempre quel giorno un altro tornado colpì duramente Adrano e Biancavilla, nel catanese, con danni ai tetti di diverse abitazioni, grandine e allagamenti. Furono chiuse le scuole e rimandati gli esami di maturità.
Un altro violento tornado siciliano in tempi recenti è stato quello che il 15 dicembre 2009 ha colpito Catania, devastando alcune zone della città e purtroppo provocando anche un morto e tre feriti nella base militare di Sigonella.

Un po’ più indietro nel tempo, il 31 ottobre 1968 nella piana di Catania si è verificato un altro evento estremo che ha provocato due vittime e 50 miliardi di lire di danni. E sicuramente tanti altri eventi si verificarono nei secoli passati, di cui però non abbiamo purtroppo memoria. Ai giorni nostri, probabilmente, questi eventi ci sembrano più intensi e frequenti perchè sono molto più diffusi mezzi di comunicazione sociali, come internet, e strumenti di testimonianza diretta (smartphone e fotocamere) che consentono di poter osservare le immagini immediatamente, al contrario di quanto non poteva essere nei tempi che furono.

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