“Diciassette anni fa, il 26 dicembre del 2004, alle 6:58 del mattino (00:58 UTC), nella regione di Banda Aceh in Indonesia, avvenne uno tra i terremoti più forti registrati nel XX e XXI secolo: magnitudo 9.2, generato da una faglia lunga oltre 1000 km”, si legge in un articolo pubblicato sul blog INGVterremoti.
“Dopo 20 minuti dalla scossa principale, uno tsunami catastrofico colpì le coste dell’Indonesia, e nelle ore successive, quelle dell’intero Oceano Indiano causando vittime e danni anche a migliaia di chilometri di distanza dall’epicentro. Lo tsunami del 2004, infatti, raggiunse le coste della Somalia (Africa centro orientale) molte ore dopo il terremoto, causando danni e quasi trecento vittime; molte altre sono state registrate in Kenia, Tanzania e in Sudafrica. In totale, circa 230.000 persone persero la vita e si contarono oltre 22.000 dispersi”.
“Gli tsunami che producono effetti a distanze maggiori di 1000 km dalla sorgente sismica, generati da terremoti di forte magnitudo, come il terremoto del 2004, sono definiti – dal punto di vista di chi si trova a subirne gli effetti – “teletsunami“. Data la grande distanza dalla sorgente, il terremoto che lo ha generato non può essere avvertito dalla popolazione prima dell’arrivo della prima onda di maremoto. Le onde di tsunami sono molto più veloci di qualsiasi onda prodotta dal vento e, in oceano aperto, possono raggiungere anche i 700-800 km/ora”.
“I sistemi di allerta tsunami permettono di emanare dei messaggi di allerta efficaci e tempestivi già pochi minuti dopo il terremoto. Purtroppo, nel 2004 non esisteva un sistema di allerta per l’oceano Indiano”, conclude l’articolo.