“Mancano ancora prove solide del fatto che la carenza di vitamina D sia associata all’infezione da COVID-19 e alla sua gravità”, si legge in uno studio, pubblicato sulla rivista Internal and Emergency Medicine, il cui scopo era quello di valutare l’associazione tra i livelli di vitamina D e i rischi di infezione da SARS-CoV-2 e malattia grave nelle persone contagiate. Lo studio ha dimostrato “una correlazione inversa tra il livello di vitamina D e i rischi di infezione da SARS-CoV-2 e di malattia grave nei soggetti infetti. I pazienti con livelli di vitamina D molto bassi (< 30 nmol/L) presentavano i rischi più elevati di infezione da SARS-CoV-2 e anche di COVID-19 grave quando infettati”, si legge nello studio.
Nello studio, “è stata dimostrata una correlazione inversa tra il livello di base di vitamina D e i rischi di infezione da SARS-CoV-2 e di malattia grave in caso di infezione. Sono state trovate anche associazioni significative tra fattori di obesità e comorbilità e i risultati dello studio. Tuttavia, anche dopo aver aggiustato per questi fattori, bassi livelli di vitamina D sono rimasti significativamente associati ai risultati”.
“Il nostro rapporto conferma i risultati di molti altri studi osservazionali che mostrano l’associazione tra bassi livelli di vitamina D e COVID-19, in particolare quelli che soffrono di malattie gravi. Inoltre, è stato riscontrato che la latitudine settentrionale (associata a livelli di vitamina D più bassi) è associata a un tasso di ospedalizzazione più elevato per COVID-19 e a un tasso di mortalità più elevato rispetto alle latitudini meridionali”, scrivono i ricercatori.
“Diversi potenziali meccanismi possono spiegare l’associazione osservata tra i livelli di vitamina D e l’incidenza di SARS-CoV-2 e la gravità della malattia. In particolare, i virus respiratori alterano l’integrità della giunzione cellulare, mentre la vitamina D mantiene le giunzioni cellulari e mostra effetti protettivi contro la disfunzione endoteliale e la trombosi. Inoltre, la vitamina D migliora l’immunità innata cellulare in parte attraverso l’induzione di peptidi antimicrobici che possono interferire con la replicazione virale. Non è noto se la vitamina D svolga un ruolo causale nella fisiopatologia del COVID-19 o sia solo un indicatore di cattiva salute e i nostri risultati dovrebbero essere interpretati con attenzione, poiché i pazienti positivi a SARS-CoV-2 e con COVID-19 grave avevano un numero maggiore di comorbidità”, spiegano i ricercatori.
“Nel contesto di una pandemia in rapida diffusione con un alto tasso di vittime, con il crescente corpo di prove che mostra un rischio significativamente maggiore nei pazienti carenti di vitamina D da un lato e la relativa sicurezza nota dell’assunzione giornaliera di vitamina D alle dosi raccomandate dall’altro, si può sostenere il mantenimento di livelli normali di vitamina D come misura di prevenzione, in particolare per le popolazioni a rischio. Sono necessari ulteriori ampi studi randomizzati controllati per determinare se l’integrazione di vitamina D può ridurre l’incidenza di COVID-19 e la sua gravità”, conclude lo studio.