Franco Malerba, il primo astronauta italiano si racconta: “andai nello spazio con la bandiera europea ma…”

“L’occasione di entrare nel mondo spaziale arrivò con un ritaglio di un giornale": Franco Malerba racconta come è iniziata la sua esperienza nello spazio
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Franco Malerba, 75 anni, nato a Busalla, in Liguria, è stato il primo astronauta italiano. Ha fatto parte dell’equipaggio dello Space Shuttle Atlantis partito il 31 luglio 1992 nel corso della missione STS-46. In un’intervista al Corriere della Sera ripercorre il modo in cui è diventato astronauta e della sua esperienza nello spazio, ma parla anche delle attuali sfide dell’esplorazione spaziale.

L’occasione di entrare nel mondo spaziale arrivò con un ritaglio di un giornale in cui si leggeva che stavano cercando scienziati e ingegneri per il primo volo dello Spacelab. Era il Financial Times e me lo portò un collega che era stato in Gran Bretagna per lavoro. Fu tutto molto casuale. Lo conservo ancora”, racconta Malerba, che da anni organizza il Festival dello Spazio a Busalla.

Ma Malerba dovette aspettare 14 anni per prendere parte a quel volo a causa dell’omicidio di Aldo Moro. “È una storia tra le pieghe degli anni di Piombo che non era mai emersa ma di cui fui testimone: l’Italia stava cogliendo insieme alla Germania l’opportunità della corsa allo spazio. Avremmo potuto, in effetti, far parte già da quel maggio del ‘78 — pochi anni dopo la conquista della Luna nel ‘69 — della selezione di punta che portò nelle esplorazioni spaziali i primi europei occidentali, insieme agli americani”, spiega Malerba. L’Europa occidentale era stata chiamata a selezionare gli astronauti per partecipare ai primi lanci dello Space Shuttle e l’Italia, secondo finanziatore del progetto Spacelab, vi rientrava a pieno titolo, con Malerba nella prima selezione. Ma l’omicidio di Moro cambiò tutto. Pochi giorni dopo la morte del politico, “ricevetti un garbato benservito. Mi dissero che l’Italia non avrebbe fatto parte della missione che, per la prima volta, univa l’Europa con la NASA in un evidente gesto che non aveva solo un valore simbolico e diplomatico, ma era anche una condivisione operativa nel campo strategico della tecnologia”.

Nel 1978, Malerba aveva 32 anni, “l’età ideale per iniziare questo mestiere: prima è difficile per non dire impossibile, perché servono troppe competenze. A 40 anni si ha davanti un orizzonte che non giustifica più il costo dell’addestramento”, ha detto l’ex astronauta. Alla fine, Malerba partì per lo spazio a 45 anni. “Saremmo potuti partire prima, questo è certo. D’altra parte ero piuttosto titolato: avevo due lauree, una in Ingegneria elettronica e una in Fisica all’Università di Genova. Avevo lavorato negli Stati Uniti per investire anche sulla lingua inglese e avevo preso un brevetto di pilota privato. Su aeroplanini da quattro soldi, dei Cessna biposto”, ha raccontato.

Eppure quello dell’astronauta non era il più grande desiderio di Malerba. “La grande vocazione della mia vita era lavorare nell’ambito della scienza e per questo avevo cercato l’occasione negli Stati Uniti. Avevo lavoravo al Cnr nei laboratori di cibernetica e biofisica: piuttosto gratis dovrei dire. Ero un borsista. Non fu particolarmente gratificante dal punto di vista economico, ma dal punto di vista della dinamica e dell’esperienza molto”.

A questo punto, l’ex astronauta parla di alcuni trucchi per non stare male quando si viaggia fuori dall’atmosfera terrestre. “Sembra un rimedio della nonna. Mi venne suggerita questa strategia da Frederick Drew Gregory, un collega che era stato per tre volte al comando di una missione. Mi disse: muovi il meno possibile la testa. Se devi guardare a destra muovi solo gli occhi e non il collo. La ragione è semplice: gli organi dell’equilibrio si trovano nelle orecchie e dunque, minimizzandone il movimento, si riducono gli stimoli. Il viaggio può diventare una via Crucis ma, in effetti, a me non accadde”, ha detto. “A causa dell’ipergravità durante il lancio noi sopportiamo un’accelerazione 3G. Il peso del corpo si moltiplica per tre, ma anche quello della tuta. Quando entravamo nello Space Shuttle avevamo uno zaino sopra il petto con due bombolette di ossigeno da usare nell’ipotesi di un lancio di emergenza fuori dalla navetta. Era uno zaino che pesava 10 kg e che dunque diventava di 30 kg. Ricordo che durante la quarantena prima del lancio chiesi a un altro collega, Charles Bolden, se avesse qualche suggerimento. Lui mi disse: quando ti mettono sul sedile ti stringono le cinture delle bombole a morte perché così è scritto nel manuale. Tu allentale. Se ti devi lanciare vuole dire che di problemi ne hai così tanti che le cinture diventano l’ultimo”, ha aggiunto.

Ci sono due zainetti, uno ufficiale e uno personale” che un astronauta può portare nello spazio. Nel suo viaggio di 30 anni fa, in quello ufficiale Malerba ha portato “delle bandiere: quella italiana, quella della Marina Militare, quella del Cnr, quella dell’Università di Genova, quella delle Nazioni Unite, perché mia moglie Marie-Aude al tempo lavorava a un loro programma, e infine quella europea che fu vittima di una storia un po’ oscura. Avevo scritto al Presidente della Commissione europea, Jacques Delors, che da convinto europeista stavo portando la bandiera europea nello spazio. Ricordo che mi rispose con una lettera ciclostilata. Ci rimasi male. Ma non finì lì, perché poco dopo il mio ritorno dallo spazio venni candidato da Berlusconi all’Europarlamento e venni eletto. Mi dissi che da europarlamentare sarebbe stato un momento magico per restituire la bandiera europea, ma siccome facevo parte di Forza Italia, che in quel momento non aveva una gran reputazione, Delors non colse l’occasione nemmeno quella volta”.

Nello zainetto personale, “avevo delle medagliette della Madonna della Guardia. Una l’abbiamo portata a Papa Giovanni Paolo II e una al Santuario della Guardia che per me è un luogo molto importante perché da una parte vede Busalla e dall’altra Genova”.

Malerba ha anche parlato del disastro del Challenger nel 1986, che si distrusse dopo 73 secondi di volo, uccidendo tutte e 7 le persone a bordo, e quindi della paura che viene collegata al mestiere dell’astronauta. “Si finisce per diventare, in un certo senso, l’armatura di un personaggio: non sei più te stesso ma quello che la gente si aspetta che tu sia. Comunque dopo il disastro del Challenger, la NASA elaborò una policy per evitare il ripetersi di una cosa orribile: le telecamere durante l’esplosione vennero puntate sui volti dei genitori della maestra che era a bordo. Da allora in poi la procedura fu questa: alle famiglie venivano offerti dei pasticcini e del caffè, poi però, dieci minuti prima del lancio, venivano portate su una terrazza separata. Mio figlio Michele aveva 5 anni. La moglie del comandante era in sostanza la persona da seguire: quando diceva “engines cut off” (il distacco dei motori) allora voleva dire che era andato tutto bene”, ha spiegato.

Qualche giorno prima della missione mi approcciarono dei funzionari NASA per dirmi che avrei dovuto nominare il mio contingency officer… non sapevo cosa fosse. È chi si occupa del recupero dei resti e dell’assistenza alla famiglia. Scelsi Steve Nagel. Quando glielo chiesi mi disse che era un grande privilegio per lui”, ha aggiunto l’ex astronauta.

Per Malerba, andremo su Martema non oltre… se me lo dicessero non ci scommetterei una cena”.

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