Alopecia areata, oggi delle cure esistono e funzionano: lo dimostra la storia di Martina

Questa malattia autoimmune colpisce il 2% della popolazione ma la causa è ancora sconosciuta
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Perdere i capelli non è mai piacevole, neppure per un uomo di mezza età, ma in quel caso, spesso, si accetta la situazione e si va avanti. Molto diverso è se questo accade a una ragazzina di 13 anni: è ciò che è capitato a Martina. Tutto è iniziato con una piccola chiazza dove i capelli hanno smesso di crescere e la diagnosi è stata subito chiara: alopecia areata, una malattia autoimmune che secondo alcune stime colpisce il 2% della popolazione, 147 milioni di persone nel mondo. La famiglia si rivolge ai migliori specialisti, sostenendo costi ingenti, ma i dermatologi consultati prescrivono alla ragazza dei farmaci a base di cortisone e ciclosporine, che non danno alcun risultato. Anzi, nel giro di qualche mese Martina perde tutti i capelli: l’alopecia diventa quindi “totale” e successivamente “universale”, con la perdita di ciglia, sopracciglia e di tutti i peli del corpo.

È stato un trauma”, racconta la mamma, Donatella. Questa malattia ha un grande impatto psicologico e relazionale: soprattutto a quell’età, i ragazzi temono le prese in giro e quindi si isolano, non vogliono più andare a scuola o uscire con gli amici. Mia figlia ha iniziato a utilizzare una parrucca, ma anche così c’erano delle cose che non poteva fare, come andare in piscina o fare un pigiama party con le amiche. In quel periodo era sempre stanca, si addormentava anche in macchina, non si alzava più dal divano. Io non mollavo mai, cercavo continuamente di trovare una soluzione, e lei mi rassicurava dicendo che magari i capelli sarebbero ricresciuti. Ma quando la vedevo senza la parrucca, mi si spezzava il cuore”. La svolta, insperata, avviene quando la ragazza inizia una terapia a base di tofacitinib somministrato per via orale: una molecola che fa parte di una classe di farmaci chiamati inibitori delle Janus chinasi, o JAK-inibitori. Alcuni di questi sono già stati approvati per il trattamento di tumori rari come la mielofibrosi e per patologie croniche di tipo autoimmune, come l’artrite reumatoide, o di tipo dermatologico, come la psoriasi e la dermatite atopica, ma possono essere utilizzati off-label anche per l’alopecia areata.

Martina oggi ha 17 anni ed è come se la sua malattia fosse scomparsa: per capire quanto il trattamento abbia funzionato basta guardare i suoi capelli castani, di nuovo lunghi fino alle spalle e curiosamente ricresciuti ricci, mentre prima erano lisci. “Ora può farsi i codini e sperimentare diverse pettinature”, aggiunge la mamma. “Il mio desiderio è quello di far conoscere questa opportunità al maggior numero di persone possibili: la mia preoccupazione è rivolta soprattutto a quei ragazzi che in età adolescenziale devono affrontare tutto questo. Non stiamo parlando solo di un danno estetico: gli studi dimostrano un aumento dei suicidi e dell’uso di sostanze sia nei pazienti che nei loro familiari”.

L’alopecia areata non va confusa con la calvizie: “Si tratta di una malattia autoimmune, molto diversa dalla calvizie che è invece dovuta al progressivo assottigliamento del capello per effetto degli ormoni androgeni”, sostiene la Prof.ssa Antonella Tosti, Ordinario di Dermatologia Clinica presso la Leonard Miller School of Medicine dell’Università di Miami, in Florida. “Le varie forme di alopecia (areata, totale, universale) sono espressione dello spettro di gravità della malattia, che può coinvolgere solo alcune piccole aree del cuoio capelluto, tutto il cuoio capelluto o tutti i peli del corpo. Più la malattia è estesa e più difficilmente risponde alle terapie. Vi sono molti trattamenti disponibili, ma purtroppo ancora non esiste una cura che guarisca definitivamente la malattia”, prosegue la Professoressa. “Ciò significa che le terapie vanno spesso continuate anche quando i capelli sono ricresciuti e che purtroppo la malattia può ripresentarsi nel tempo. Fra le opzioni terapeutiche ci sono cortisonici topici (intralesionali o per via sistemica), immunoterapia topica con dibutilestere dell’acido squarico o difenciprone, antralina topica, minoxidil topico e sistemico, immunosoppressori orali (ciclosporina, metotrexato). La scelta dipende dall’età del paziente e dalla gravità della malattia”.

Molti pensano, sbagliando, che la causa sia lo stress. “È classificata tra le malattie autoimmuni, ma l’esatto meccanismo che induce la perdita (in genere temporanea) del capello è ancora sconosciuta. Esistono tante teorie, ma sappiamo che modificando la risposta autoimmune la malattia migliora, anche se tende a recidivare”, sottolinea il Prof. Claudio Feliciani, Direttore della Struttura Complessa di Dermatologia dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria di Parma. “Il decorso è imprevedibile, per cui spesso non riusciamo a rispondere a tutte le domande che ci fanno i pazienti, soprattutto sull’andamento della malattia. Queste incertezze e la scarsa efficacia nel bloccare definitivamente la malattia induce nei pazienti uno stato di ansia: la qualità di vita, pertanto, è una componente fondamentale da gestire da parte dei medici. Abbiamo molte armi contro questa malattia, ma tutte scarsamente efficaci a lungo termine. Abbiamo invece grandi speranze sulle nuove terapie biologiche, meno tossiche e più specifiche”.

La ricerca in questo ambito, infatti, è estremamente attiva. Gli obiettivi principali delle attuali terapie sono di bloccare l’attacco del sistema immunitario e di stimolare la ricrescita dei capelli: questa strategia funziona soprattutto per le persone con forme più lievi della malattia (meno del 50% di perdita di capelli). Sono numerosi i gruppi di ricerca che hanno concluso o stanno conducendo studi clinici sull’alopecia areata: tra questi, quelli che attualmente stanno reclutando partecipanti sono poco più di una decina, come riportato sul sito Clinical Trials. Gli approcci più innovativi sono quelli che puntano sugli inibitori delle Janus chinasi, la classe di farmaci immunomodulatori che hanno permesso a Martina di guarire dalla malattia. In diverse sperimentazioni hanno mostrato benefici e oggi vengono considerati molto promettenti. L’attenzione dedicata dai ricercatori a questa patologia, in ogni caso, fa ben sperare in un futuro in cui i pazienti potranno contare su un trattamento definitivo.

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