Si chiama trimetilaminuria, TMAU, o Sindrome da odore di pesce: si tratta di una malattia metabolica dovuta all’incapacità del nostro corpo di produrre un enzima che deve smaltire una sostanza presente in molti cibi, soprattutto pesce e crostacei. Se l’enzima manca la trimetilammina viene rilasciata attraverso sudore, urine e respiro che acquisisce così un caratteristico odore di pesce marcio, da cui il nome evocativo di “Sindrome da odore di pesce”.
“La TMAU consiste in un difetto genetico ereditario dovuto a mutazioni a carico del gene FMO3 – spiega a Osservatorio Malattie Rare la Dottoressa Valentina Rovelli, Pediatra metabolista dell’Equipe Medica dedicata alla cura e assistenza dei pazienti affetti da Malattie Metaboliche presso la Pediatria dell’Ospedale San Paolo di Milano, ASST Santi Paolo e Carlo, diretta dal Dr. Giuseppe Banderali – Da un punto di vista strettamente medico non comporta rischi, ma può diventare estremamente invalidante, specie da un punto di vista sociale. L’odore emanato dai soggetti affetti può essere percepito dagli altri come fortemente fastidioso, portando i pazienti che ne soffrono ad essere isolati, talvolta emarginati e quindi soggetti al rischio di sviluppare patologie psichiatriche quali depressione, disturbi d’ansia o dell’umore e analoghi”.
“Non sempre i pazienti ne risultano consapevoli, non sempre percepiscono il disturbo come tale – continua l’esperta – magari non gli è mai stato segnalato, magari la famiglia ne risulta talmente abituata che non vi fa caso. Questo può far sì che, una volta superato il contesto familiare, all’ingresso in società, il soggetto affetto si trovi improvvisamente a fare i conti con un isolamento inatteso, dal suo punto di vista inspiegabile, possibilmente quindi foriero di difficoltà di accettazione e comprensione dei relativi meccanismi di sviluppo. L’inconsapevolezza, in questi casi, può risultare controproducente: comprendere il proprio stato di malattia può permettere agli individui affetti di mettere in atto tutta una serie di provvedimenti specifici, soprattutto alimentari che, ove guidati in modo corretto da un adeguato team di medici e dietisti, risultano in grado di ridurre se non talvolta del tutto eliminare la problematica”.
A ribadire ciò è Laura, 30 anni, che ha ottenuto la conferma della diagnosi proprio dalla Dottoressa Rovelli: “Io continuo a non sentire questo odore. Né su di me, né su mio fratello, anche lui affetto dalla mia stessa mutazione genetica. A 13 anni per la prima volta una compagna di banco mi disse ‘il tuo alito puzza di pesce’. A me pareva strano, considerando che la sera prima avevo mangiato tutt’altro e a colazione non avevo di certo ingerito del pesce. Ci rimasi male, ma non diedi particolare peso all’episodio. I problemi sono iniziati al liceo. Frequentavo un liceo femminile ed erano molto frequenti le scenate in cui si chiedeva a gran voce di spalancare le finestre per mandare via la puzza. Fino al liceo però non ho mai avuto commenti diretti sul mio odore, non ho mai sospettato nulla. Ho iniziato a capire che qualcosa non andava a mano a mano che i commenti aumentavano”.
“Ci sono persone che emanano odori lievi – chiarisce Rovelli – e solo in seguito all’assunzione di determinati cibi. La crescita, con le variazioni ormonali ad essa connesse, può risultare un fattore trigger nello scatenare in modo più accentuato tali manifestazioni. Soprattutto il periodo dell’adolescenza può risultare determinante: periodo peraltro estremamente delicato proprio per lo sviluppo psicosociale. È proprio per questa ragione che ancor più in un periodo tanto delicato risulta fondamentale saper identificare, diagnosticare e trattare questa patologia, prima che l’eventuale isolamento sociale che ne può conseguire possa determinare danno sulla vita del paziente affetto”.
Danno che può esplicitarsi anche nella difficoltà di inserimento in ambito lavorativo, come racconta Laura: “Ho deciso di cercare una conferma diagnostica perché, anche se io lavoro per la stessa azienda da tempo senza problemi, leggo di molte persone che a causa dell’odore che emanano vengono continuamente licenziate, isolate, mobbizzate. Penso che la diagnosi possa essere una tutela, si tratta di una condizione che in alcuni casi può essere anche molto disabilitante. Personalmente voglio provare a seguire la dietoterapia, unico possibile strumento per tenere sotto controllo l’odore tipico della trimetilammina, che io non riesco a metabolizzare e quindi rilascio attraverso sudore, urine e respiro. Si tratta però di una dieta piuttosto drastica, che va seguita sotto controllo medico e va monitorata costantemente. Inoltre sono convinta che ci siano molte persone nella mia situazione, che non sanno di avere questa sindrome. Il fatto che ci siano 20 persone con la malattia oppure 2.000 può cambiare radicalmente la prospettiva, se non facciamo sapere che ci siamo saremo sempre dei malati invisibili e per noi non ci sarà mai una cura”.
“Attualmente non esiste un registro di patologia – aggiunge Rovelli – e i pazienti italiani ai quali la diagnosi è stata confermata geneticamente ci risultano essere nell’ordine di poche decine. Presso il nostro centro di recente è stato però registrato un notevole incremento di richieste di consulenza a questo proposito, forse anche grazie a internet e al fatto che se ne parli sempre più di frequente. Per questa ragione abbiamo deciso di implementare i servizi già ad oggi presenti presso la nostra struttura, realizzando un percorso dedicato ai pazienti affetti da trimetilaminuria, fatto di un team multidisciplinare di medici e dietisti che stanno sempre più approfondendo questa malattia metabolica, al fine di fornire un servizio sempre più efficace e in grado di significativamente migliorare l’outcome clinico del paziente”.
Presso il Laboratorio di Genetica del San Paolo è possibile effettuare l’indagine genetica per la conferma diagnostica, previa consulenza presso l’Ambulatorio di Malattie Metaboliche Congenite.
“L’obiettivo è quello di garantire una presa in carico completa del paziente – conclude Rovelli – elaborando piani assistenziali validati e condivisi che portino anche alla realizzazione di eventuali PDTA (Percorsi Diagnostici Terapeutici Assistenziali), basati su una crescente conoscenza dei pazienti e delle peculiarità che li caratterizzano, inoltre in grado di favorire il processo necessario al raggiungimento di codici di esenzione dedicati ad oggi non ancora disponibili”.