Giovanni Brussato, Ingegnere Minerario e Consulente scientifico degli Amici della Terra Onlus, ha scritto un articolo per lo speciale di Calabria Live in cui si affronta il tema tanto dibattuto dei cosiddetti cambiamenti climatici antropici, ossia i cambiamenti del clima attribuiti all’azione dell’uomo, principalmente attraverso le emissioni di gas serra. Nel suo articolo dal titolo “Una transizione che non è rinnovabile”, Brussato, che è anche autore del Libro “Energia verde? Prepariamoci a scavare”, parla della transizione verde, di come sia fondata sull’estrazione mineraria e dei gravi effetti collaterali, anche in termini di costi energetici, che ne conseguirebbero.
Di seguito, l’articolo pubblicato da Giovanni Brussato.
“Quando si parla di transizione verde è opportuno tenere ben presente che l’European Green Deal è una transizione energetica fondata sui metalli, per quanto il Segretario generale delle Nazioni Unite dal palco della COP26 a Glasgow affermasse: «Basta con l’estrazione mineraria… stiamo scavando le nostre tombe». In realtà quello che si sta pianificando è di estrarre nei prossimi 30 anni più di quanto si sia mai estratto nei precedenti 5.000 anni. L’estrazione mineraria è il motore della transizione verde esattamente come l’attuale sistema energetico ne dipende per l’approvvigionamento dei combustibili fossili. La COP26 ha confermato come politici, ONG e consumatori siano pronti a stimolare la domanda di materie prime per la transizione energetica attraverso la definizione di un’ambiziosa serie di obiettivi: una maggiore generazione e distribuzione di energie rinnovabili, stoccaggio, infrastrutture di ricarica ed adozione di veicoli elettrici che richiederanno una massiccia accelerazione degli investimenti nell’estrazione e nella lavorazione primaria. Ora se la domanda sembra assicurata pare lecito capire se l’offerta sia in grado di sostenerla e a quali costi. L’offerta si deve necessariamente confrontare con una serie di problematiche che presentano gravi criticità: innanzi tutto la disponibilità fisica della materia prima.
Se nel 2050 a livello globale quasi il 70% di energia elettrica dovesse essere prodotta da eolico e solare sarà necessario estrarre miliardi di tonnellate di metalli, almeno 3,5 secondo la World Bank. Nell’attuale narrativa green “le risorse non sono un problema”: un goffo tentativo di nascondere sotto il tappeto un problema che minerebbe le fondamenta stesse della transizione. L’idea stessa che ci possano essere limiti basati sul sistema dell’estrazione globale di risorse è considerata folle dall’attuale mercato economico. Una delle fonti più utilizzate per stimare l’entità delle riserve e delle risorse minerarie è il Servizio Geologico Statunitense (United States Geological Service), che raccoglie informazioni da miniere e depositi di tutto il mondo per tutte le materie prime. Dalla narrativa green questi dati vengono divulgati come realtà fisiche evitando di spiegare quello che invece lo stesso USGS evidenzia: si tratta del risultato di un’analisi geostatistica. Infatti se le riserve dichiarate possono essere considerate in parte attendibili, poiché il loro tenore e cubaggio è stato compiutamente misurato, altre sono solo dedotte cioè non sono convalidate da campioni e misure. Ma il reale problema viene dalla stima delle risorse che sono inesplorate, la cui esistenza è puramente ipotetica o basata su analogie geologiche.
Dati, quindi, che vanno assunti con grande cautela: le risorse di cobalto identificate includono quelle presenti nei noduli e nelle croste di manganese sul fondo degli oceani Atlantico, Indiano e Pacifico la cui accessibilità ed economicità è, a dir poco, remota. Inoltre esistono stime diverse da organismi internazionali altrettanto qualificati: per il Department of Industry, Science, Energy and Resources del Governo Australiano il valore delle riserve di rame dell’Australia sono 22 Mt mentre per l’USGS sono 88 Mt, analogamente per il litio sono 3,4 Mt per i primi 4,7 Mt per i secondi. Molto spesso vengono utilizzate informazioni fornite dalle compagnie minerarie le cui finalità, però, percorrono strade diverse: su un’analisi di 115 miniere che rappresentano l’80% della fornitura globale di rame al di fuori della Cina tra il 2001 e il 2014 è emerso che queste società hanno sostituito quasi il 300% della loro produzione con nuove riserve lorde. Guardando solo alle aggiunte di riserve, il futuro dell’industria globale del rame sembrava roseo. Ma notoriamente il diavolo si nasconde nei dettagli. Quasi l’80% delle riserve contabilizzate tra il 2001 e il 2014 non provenivano da nuove scoperte, né dal ritrovamento di nuove zone in relazione ai giacimenti esistenti, quasi tutte queste aggiunte provenivano dalla riclassificazione di quella che era stata considerata roccia di scarto in minerale estraibile, un processo noto nell’industria come “abbassamento del grado di cutoff” cioè quella soglia al di sotto della quale diventa antieconomico estrarre il minerale. Oggi tenore di cut-off è di 0,25%: il che significa estrarre, frantumare e processare circa 400 tonnellate di roccia ed immettere nell’atmosfera fino a 20 tonnellate di CO2 e per ottenerne una di rame.
Eppure malgrado queste evidenze politici, ONG e consumatori sono pronti a stimolare la domanda di materie prime per la transizione energetica attraverso la definizione di un’ambiziosa serie di obiettivi: questi impegni per una maggiore generazione e distribuzione di energie rinnovabili, stoccaggio, infrastrutture di ricarica e adozione di veicoli elettrici richiederanno una massiccia accelerazione degli investimenti nell’estrazione e nella lavorazione primaria”.
Greenflation
“Prendendo in considerazione solo un campione di quattro metalli rame, nichel, cobalto e litio, considerati i metalli più importanti e più fortemente influenzati dalla transizione energetica molteplici analisi concordano che il valore totale della produzione potrebbe aumentare di oltre quattro volte per il periodo 2021-2040. Rame e nichel sono definiti metalli di base e sono stati scambiati per più di un secolo sulle borse dei metalli, sono ampiamente utilizzati in tutta l’economia ed anche nelle tecnologie a basse emissioni di carbonio. Cobalto e litio, invece, vengono spesso definiti metalli tecnologici e sono considerati metalli critici ma il loro utilizzo è in forte aumento. Hanno iniziato a essere scambiati sulle borse di metalli negli anni 2010 e hanno attirato l’attenzione degli investitori, principalmente perché vengono utilizzati nella produzione di batterie. Una recente analisi dell’FMI riscontra come i prezzi di rame, nichel, cobalto e litio potrebbero raggiungere picchi storici per un periodo senza precedenti in uno scenario di emissioni nette zero.
Se la domanda di metalli aumenta e l’offerta è lenta a reagire, potrebbe causare un rally pluriennale dei prezzi, che potrebbe far deragliare o ritardare la transizione energetica ma soprattutto potrebbe abbattersi come uno tsunami sull’economia reale. Poiché oggi la capacità produttiva dell’industria mineraria globale in tutte le aree dello sviluppo, dell’estrazione primaria e della lavorazione dei metalli è sottodimensionata. Per facilitare la crescita della domanda, le compagnie minerarie dovranno aumentare gli investimenti in attività di natura operativa, capex, per permettere la crescita della capacità primaria. Le stime indicano in poco meno di un trilione di dollari la spesa prevista entro il 2030 solo per evitare colli di bottiglia verso il raggiungimento di “Net-Zero” ed in più del doppio, 2 trilioni di dollari, per ottenere una transizione energetica accelerata. Per contestualizzare questo numero si consideri che il capex minerario globale è stato poco meno di 100 miliardi di dollari nell’ultimo decennio.
L’ultimo superciclo delle materie prime di un decennio fa ha comportato pesanti costi ed operazioni onerose che si sono concluse con miliardi di svalutazioni. Pertanto, molti azionisti rimangono tiepidi sulle grandi espansioni greenfield, cioè nella ricerca di nuovi giacimenti. Sarà quindi importante capire come le compagnie bilanceranno la distribuzione dei dividendi con un equilibrio di capex spostato verso la crescita ma soprattutto, in via principale, se l’industria mineraria, o meglio i suoi investitori, intenda finanziare gli investimenti significativi necessari per seguire il percorso di una transizione accelerata. Secondo molti operatori, le compagnie minerarie che espandessero gli investimenti in modo troppo aggressivo, facendo crescere la produzione troppo rapidamente, danneggerebbero potenzialmente le dinamiche positive della domanda e dell’offerta: l’attuale livello dei prezzi delle commodities fa gola ad una finanza che vede con meno interesse il problema delle crescenti emissioni di CO2.
Naturalmente, questo presuppone che rimanga possibile sviluppare fisicamente la capacità di estrazione e di trasformazione richiesta nel tempo, il che non è affatto un dato di fatto: oggi i tempi di apertura di una miniera dalla scoperta alla produzione, secondo Mark Cutifani, CEO di Anglo American, sono fino a 12-13 anni e ricordiamo che, secondo la IEA, questo valore sarebbe più vicino ai 18 anni. Inoltre, gli investitori istituzionali preferiscono, naturalmente, limitare gli investimenti ai paesi a basso rischio, ma questo non sarà possibile se una transizione energetica accelerata deve diventare la via obbligata. Saranno quindi necessari accordi intergovernativi per garantire la tutela della proprietà e per sostenere effettivamente progetti in cui, il profilo di rischio del paese, ha finora precluso gli investimenti al fine di evitare alle compagnie minerarie i rischi legati al nazionalismo delle risorse.
Ma produrre energia con turbine eoliche e pannelli fotovoltaici o conservarla mediante batterie, richiede un enorme aumento delle forniture di materie prime. Ogni auto elettrica contiene circa 180 kg in più di alluminio e circa 68 kg in più di rame rispetto a un’auto convenzionale: che si aggiungeranno ai livelli di produzione attuali. Sfortunatamente, come ha sottolineato la stessa Agenzia internazionale per l’energia (IEA), l’offerta di minerali critici non si sta espandendo rapidamente. Anzi, nemmeno si avvicina alle reali esigenze.
Questa è una formula incendiaria per l’inflazione. Perseguire i propositi del presidente Biden e dell’Unione europea sul tema di un raddoppio dell’energia verde per sottrarsi alla dipendenza del gas russo, che ad una prima analisi potrebbero sembrare logici, che sia realistico o meno il loro raggiungimento, è inflazionistico. E questo contesto durerebbe più a lungo dell’inflazione sul cibo o sul carburante poiché, come visto, molti di questi metalli vengono utilizzati trasversalmente in tutti gli ambiti della produzione industriale. L’impatto inflazionistico del tentativo di soddisfare le richieste di materie prime necessarie ad un raddoppio della produzione di “energia verde” porterebbe i prezzi dei metalli a raggiungere picchi storici per un periodo senza precedenti e prolungato di circa un decennio. Naturalmente senza considerare che l’aumento dei prezzi porterebbe i costi dell’energia a livelli tali da far rimpiangere il gas russo… Il processo di estrazione di una risorsa limitata dalla crosta terrestre significa sottrarla alla disponibilità delle generazioni future, evitiamo di farlo con una transizione che si presenta palesemente acritica e irrazionale, fideistica e strumentale, e pertanto priva di attenzione ai pesantissimi effetti collaterali”.