Di Alessandro Foti – Era una mattina d’estate e il nostro viaggio in nave lungo le coste del Mar Nero era quasi alla fine. Di lì a poco saremmo sbarcati a Brindisi per fare ritorno a Reggio Calabria. Al porto ci venne a prendere l’autista della Soprintendenza, il signor Lucisano: in mano sventolava due foto, con la voglia di farle vedere al suo direttore il prima possibile. Gli occhi di mio padre si accesero di contentezza mista a stupore e meraviglia per le due statue che avrebbero dato nuova vita al museo di Reggio Calabria e non solo; eppure durante il viaggio, quando possibile, era stato in contatto telefonico con gli operatori del recupero, tuttavia alla vista delle foto che il sig. Lucisano gli porgeva con grande orgoglio e soddisfazione, non era riuscito a trattenere la forte emozione e mi piace pensare che fu proprio quella mattina al porto di Brindisi, quando vide in quelle due foto la perfezione, che decise di divulgarla al resto del mondo.
Prima di partire per la crociera programmata da tempo, mio padre aveva incontrato lo scopritore dei Bronzi, il dott. Stefano Mariottini ed aveva organizzato il recupero delle due statue chiedendo la collaborazione del Nucleo Sommozzatori dei Carabinieri di Messina ed in sua assenza, aveva incaricato delle attività a mare il funzionario più alto in grado, il dott. Piero Giovanni Guzzo.
Al ritorno da quel viaggio che tutta la famiglia aveva desiderato per anni, si mise subito al lavoro con la consapevolezza che il restauro dei due “eroi venuti dal mare” sarebbe stato un impegno notevole e delicato. Riconobbe le due statue come creazioni della bronzistica greca da ascriversi alla grande tradizione artistica del V sec. a.C. e dopo il primo intervento per la desalinizzazione presso la Soprintendenza calabrese, per il restauro che allora immaginò essere quello definitivo, scelse il laboratorio della Soprintendenza archeologica della Toscana guidata dal dott. Francesco Nicosia.
Così nel 1975 le due statue furono trasportate a Firenze dove disponevano sia delle indispensabili attrezzature che del personale dotato di esperienza ormai decennale nel campo della conservazione dei reperti metallici di provenienza archeologica.
Le attività di restauro come si prevedeva furono complesse, durarono otto lunghi anni e si conclusero con una prima esposizione dei due eroi a Firenze (dicembre 1980-gennaio 1981) e poi a Roma al Quirinale (giugno-luglio 1981).
Ho molto vivo nel ricordo l’impegno e la determinazione che mio padre profuse per il ritorno delle due statue in Calabria dove finalmente arrivarono per non più ripartire.
Per l’esposizione delle due statue al Museo nazionale di Reggio Calabria pensò ad un ampio salone che avrebbe ospitato tutti i reperti subacquei rinvenuti fino ad allora nella regione, contestualizzando il rinvenimento degli eroi di Riace che sarebbero stati esposti insieme alla testa del Filosofo rinvenuta nelle acque calabresi dello Stretto di Messina in località Porticello. Fu proprio lo scavo del relitto di Porticello che Foti affidò alla direzione del prof. D. I. Owen del Museo dell’Università di Pennsylvania (una delle istituzioni all’avanguardia per quel tempo) che segna l’inizio dell’archeologia subacquea in Calabria, intorno alla fine degli anni sessanta del secolo scorso.
Tuttavia Giuseppe Foti, come Soprintendente della Calabria non si occupò solo di archeologia subacquea, ma soprattutto promosse scavi e ricerche in tutta la regione con la collaborazione di studiosi di grande fama e professionalità. Basta ricordare l’avanzamento della ricerca preistorica con il rinvenimento del Bos primigenius, risalente al Paleolitico superiore, nella Grotta del Romito, affidata a Paolo Graziosi, massimo esperto del settore, e al suo team dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria di Firenze; o lo scavo della Grotta della Madonna di Praia a Mare affidato all’Istituto di paletnologia di Roma, diretto da Luigi Cardini. Nel territorio di Sibari promosse campagne di scavo a Francavilla Marittima, che affidò alla direzione della mitica Paola Zancani con la collaborazione della Società Magna Grecia; vengono così alla luce sia la necropoli enotria di Macchiabate sia il santuario di frontiera sibarita del Timpone della Motta. Ed ancora negli anni sessanta le ricerche di Amendolara centro indigeno sottoposto al dominio politico e culturale di Sibari, affidate a Juliette de la Genière. Negli anni settanta del secolo scorso effettuò scavi a Crotone, a Gioia Tauro a Vibo Valentia, centri presi d’assalto dalla speculazione edilizia. A partire dagli anni settanta assicurò scavi continui e regolari a Locri nella zona di Centocamere con la collaborazione dell’Università di Torino del prof. Gullini che diede un fondamentale contributo alla conoscenza dell’urbanistica e dell’edilizia privata della colonia. Aprì i Musei di Locri, Vibo Valentia, la prima esposizione a Sibari e non ultimo allestì il Museo Nazionale di Reggio Calabria.
Potrei continuare ma rimando un maggiore approfondimento delle attività scientifiche di mio padre alla consultazione della voce Giuseppe Foti nel Dizionario Biografico dei Soprintendenti Archeologi (1904,-1974) edito nel 2012 dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali, per i tipi Bononia University Press (pp. 335-342).
Tutto questo fu possibile grazie ad una persona che si dedicò non solo alla famiglia, ma anche e soprattutto al suo lavoro.
Questo è il mio modo di ricordare Giuseppe Foti, mio padre che molti non conoscono, ma che tanti sicuramente ricorderanno, per il suo impegno e per lo sconfinato amore per questa terra che spero non dimentichi una figura di cui può e deve andare fiera.