La Cina sta diventando una polveriera: le proteste contro i nuovi lockdown imposti dal regime di Xi Jinping si allargano a macchia d’olio in tutte le principali città del Paese, dove monta la rabbia per le rigide restrizioni previste dal “modello cinese” nel contrasto alla pandemia che qualcuno voleva continuare ad imporre anche in Italia considerandolo un “modello” vincente. E invece persino in Cina la popolazione ha trovato il coraggio per ribellarsi, pur consapevole di affrontare un regime senza scrupoli.
La popolazione è scesa in piazza e nelle ultime ore le manifestazioni sono diventate imponenti, mobilitando i cittadini persino a Wuhan, la città in cui è iniziata la pandemia e che ad inizio 2020 ha pagato un tributo altissimo di morti per il Covid-19. Anche lì, però, esistono evidentemente dei “pericolosi negazionisti e complottisti” (come li definirebbero i Covid-terroristi italiani, sigh!) che chiedono di convivere con la pandemia senza limitare ulteriormente le libertà personali.
Il Governo ha imposto nuovi lockdown con il pretesto della nuova ondata di contagi che, almeno secondo i dati ufficiali (che all’inizio della pandemia non rispecchiavano certamente la realtà), non hanno precedenti da quando è iniziato a circolare il virus. Oggi la Commissione sanitaria nazionale ha comunicato 39.791 nuovi casi positivi in tutto il Paese (che, ricordiamo, ha un miliardo e mezzo di abitanti!), di cui 36.082 asintomatici. Il numero dei nuovi casi positivi non era mai stato così alto dall’inizio della pandemia. I contagi registrano una incidenza maggiore nelle aree metropolitane di Canton, Pechino e Chongqing. In tutto il Paese ci sono oltre 320mila le persone isolate sotto osservazione medica. Anche a Shenzhen oggi le autorità del Partito Comunista che governa il Paese hanno dichiarato che limiteranno al 50% la capienza dei ristoranti e di altri locali al coperto come misura di prevenzione della nuova crescita dei contagi. Inoltre i nuovi arrivati nella città non potranno entrare in luoghi come teatri e palestre per i primi tre giorni della loro permanenza.
Proprio queste nuove misure, che nei giorni scorsi avevano già interessato molti altri distretti del Paese, hanno scatenato la ribellione popolare: i cinesi non ne possono più di chiusure e lockdown che continuano in modo rigido da ormai due anni e mezzo. La folla è scesa in piazza a Urumqi, capitale dello Xinjiang, Stato nel nord del Paese abitata da una maggioranza musulmana e turcofona ben nota alle cronache internazionali per gli abusi dei diritti umani perpetrati dal regime comunista nei confronti della comunità locale. I residenti hanno sfilato cantando “fine del blocco” e alzando i pugni in aria, dopo che giovedì scorso si è verificato un incendio che è costato la vita a 10 persone ed ha scatenato la rabbia popolare per il ritardo nei soccorsi legato alle politiche restrittive anti Covid-19. Le autorità locali venerdì sera si sono addirittura scusate (circostanza rarissima in Cina) e hanno promesso di “ripristinare l’ordine” punendo i colpevoli dell’incendio e rinunciando alle restrizioni. Le proteste di Urumqi hanno indotto le autorità dello Xinjiang ha dichiarare terminata l’emergenza Covid, un annuncio accolto con scetticismo e sarcasmo sui social network e che sembra aver incoraggiato nuove proteste in altre città del Paese. Non è facile, tuttavia, avere un quadro chiaro delle dimensioni della rivolta, in ragione della censura applicata dalle autorità cinesi ai media locali e delle restrizioni all’accesso ad Internet, che è stato limitato per nascondere al mondo quello che sta succedendo.
La gente e soprattutto gli studenti sono scesi in piazza nelle scorse ore anche a Pechino, Shanghai e Nanchino. Quella di Urumqi è stata la scintilla che ha innescato la rabbia in tutta la Cina. “Xi Jinping dimettiti” e “Partito comunista lascia il potere” sono fra gli slogan delle proteste di Shanghai, dove stamani è arrivata la polizia in assetto anti sommossa per eseguire arresti di massa e disperdere la folla. I video che circolano a decine sui social network mostrano anche l’arrivo sul posto di decine di mezzi della polizia in assetto anti-sommossa e l’arresto di un numero imprecisato di manifestanti. Scene che in Cina non si vedevano dai tempi della repressione dei moti democratici di piazza Tienanmen nel 1989. Altri manifestanti hanno fatto sventolare la bandiera cinese e intonato l’inno nazionale i cui versi “insorgi! insorgi!” possono essere letti come segno di patriottismo ma anche come l’espressione di solidarietà con i cinesi colpiti dalle politiche del ‘zero covid’ di Xi.
L’incrocio tra le strade Anfu Road e Urumqi Road, nel cuore di Shanghai, è l’epicentro di una vera e propria rivolta che sta scuotendo la Cina e che rischia di minacciare la tenuta del Partito comunista a poco più di un mese dal Congresso che ha conferito un terzo, storico mandato da segretario generale al presidente Xi Jinping. Dopo le manifestazioni di ieri sera sono riprese questa mattina le proteste contro le draconiane misure anti-Covid decise dalle autorità cinesi per fermare la pandemia. I dimostranti intonano l’inno nazionale, scandiscono le parole “Vogliamo la libertà” e si spingono anche a chiedere le dimissioni del presidente Xi.
Secondo quanto si apprende dalle testimonianze sul posto, la polizia si sta raccogliendo all’incrocio tra Anfu Road e Wuzhong Road nel tentativo di disperdere la folla. Da ieri sera le proteste sono in corso anche a Pechino, a Nanchino e a Canton. Nella capitale questa mattina si sono mobilitati gli studenti dell’Università Tsinghua, l’ateneo più prestigioso che da decenni forma la classe dirigente del Paese in cui mai c’era stata una manifestazione contro il regime.
“Alle 11:30 (le 4:30 in Italia) gli studenti hanno iniziato a mostrare dei cartelli all’ingresso della mensa, poi si sono aggiunte sempre più persone. Ora ci sono dalle 200 alle 300 persone… Abbiamo cantato l’inno nazionale e l’Internazionale e abbiamo gridato ‘la libertà prevarrà“, ha raccontato uno studente. Lo studente ha riferito che una studentessa ha iniziato reggendo un foglio di carta bianca – un gesto che è diventato il simbolo della protesta contro la censura in Cina – ed è stata raggiunta da altre donne. “Abbiamo cantato l’inno nazionale e l’Internazionale e abbiamo gridato: ‘la libertà prevarrà’, ‘no ai test PCR, vogliamo il cibo’, ‘no al confino, vogliamo la libertà“, ha raccontato il testimone. Su Internet, i video mostrano una folla fuori dalla mensa universitaria, riunita intorno a un giovane che grida: “Questa non è una vita normale, ne abbiamo abbastanza. La nostra vita non era così prima!“. Un altro video, apparentemente girato nello stesso luogo, mostra studenti che gridano: “Democrazia e stato di diritto, libertà di espressione“, ma è stato rapidamente rimosso dalla Rete. Il testimone ha aggiunto che il vice segretario del Partito Comunista dell’università stava parlando con gli studenti e che molti avevano iniziato ad andarsene, mentre la polizia non era ancora arrivata.